
Cassazione: via “padre” e “madre” dai documenti dei minori, torna “genitori”
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ToggleLa Corte di Cassazione, con una sentenza storica, ha dato scacco matto a Matteo Salvini dichiarando l’illegittimità del decreto 2019 con cui l’allora capo del Viminale aveva imposto la dicitura “padre” e “madre” sulle carte di identità dei minorenni.
Se gli Stati Uniti a guida Trump sembrano essere impegnati nella tarantella “dazi sì dazi no”, anche l’Italia, nel suo piccolo, è alle prese con il suo personalissimo “tira e molla”. Un tira e molla che però, nel nostro caso, non riguarda strategie economiche e le loro ripercussioni globali, ma ha a che fare con una battaglia terminologica che va avanti da anni.
Con una sentenza storica, la n.9216/2025 pubblicata lo scorso nove aprile, la Corte di Cassazione ha stabilito che sulla carta d’identità elettronica dei minori dovrà comparire la dicitura neutra «genitori», anziché «padre» e «madre», cassando (appunto) in modo perentorio il decreto del 31 gennaio 2019 dell’allora ministro dell’interno Matteo Salvini. La Corte ha infatti respinto il ricorso presentato dal Viminale contro una precedente sentenza della Corte D’Appello di Roma, mettendo finalmente la parola fine a una disputa giudiziaria che andava avanti da ben sei anni e che è passata attraverso tutti i gradi di giudizio previsti dall’ordinamento giuridico italiano.
Una vicenda legislativa tormentata.

Nel 2015, quando il presidente del Consiglio era Matteo Renzi, il decreto legge che introdusse la carta d’identità elettronica fu seguito da un decreto attuativo che spiegava che il documento di un minorenne doveva necessariamente indicare anche le generalità dei “genitori” o “tutori” (le paventate voci “genitore 1” e “genitore 2” non sono mai comparse in alcun documento ufficiale).
Tutto filò liscio fino al 31 gennaio 2019 quando un nuovo decreto ministeriale, firmato dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini e controfirmato dai ministri Giulia Bongiorno (Ministra per la Pubblica amministrazione) e Giovanni Tria (Ministro dell’Economia), ha eliminato la parola “genitori”, imponendo di nuovo l’uso dei termini “padre” e “madre”.
Il provvedimento, la cui ratio era di tutelare il modello di famiglia “tradizionale” (ovvero composta da una coppia eterosessuale) di fatto disconoscendo qualsiasi modello familiare a essa non riconducibile, aveva incassato subito un parere negativo da parte del Garante della privacy che aveva messo in luce come, di fatto, la nuova norma potesse impedire la richiesta del documento “da parte di figure genitoriali non esattamente riconducibili alla specificazione terminologica padre o madre” o costringerle a fare dichiarazioni non corrispondenti alla realtà.
Il caso specifico

Il provvedimento di Salvini creò immediatamente un problema concreto per le famiglie omogenitoriali, non essendo possibile in alcun modo identificare correttamente due madri o due padri nei documenti ufficiali dei loro figli.
Un problema oggettivo, che si è posta subito una coppia di donne con un figlio facendo ricorso al Tribunale di Roma. Nello specifico, il bambino era il figlio biologico di una delle due donne, mentre l’altra lo aveva adottato attraverso la c.d. “step child adoption” (procedura che permette l’adozione del figlio biologico del partner). Con il decreto del 2019, sulla carta d’identità del minore una delle due donne sarebbe dovuta comparire necessariamente come “padre”, creando un’evidente distorsione della realtà e impedendo al bambino di avere un documento che rispecchiasse correttamente la sua situazione familiare.
Il Tribunale, in primo grado, aveva dato ragione alla coppia ordinando di usare il termine neutro “genitore” sul documento. Il Ministero dell’Interno aveva quindi impugnato questa decisione davanti alla Corte d’Appello di Roma, che aveva però confermato la sentenza di primo grado. Infine, il Viminale aveva presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che il decreto ministeriale dovesse prevalere. Ma la Cassazione ha definitivamente stabilito che il decreto sia da disapplicare in quanto “irragionevole e discriminatorio”, poiché non rappresentativo delle diverse realtà familiari legalmente riconosciute nell’ordinamento italiano, con buona pace di Matto Salvini.
Insomma, come recita un noto proverbio, “tra il fare e il disfare è tutto un lavorare”.
Il contesto giuridico italiano

Sì perché, obiettivamente, viene da chiedersi che senso abbia avuto emanare un decreto anacronistico che non teneva conto delle realtà concrete della società e contro cui inevitabilmente si è scontrato, naufragando inesorabilmente. Ma questa tarantella terminologica (che, ça va sans dire, terminologica non è) è lo specchio della grande confusione che ancora regna nel nostro Paese in merito al riconoscimento delle famiglie omogenitoriali.
Se da un lato la legge sulle unioni civili (la numero 76 del 2016) ha conferito alle coppie dello stesso sesso uno status giuridico, dall’altro lato permangono numerose lacune sulla filiazione, specialmente dopo la legge voluta dal governo Meloni, che ha reso la gestazione per altri “reato universale”.
La step child adoption (l’adozione del figlio biologico del partner, riconosciuta in Italia attraverso l’articolo 44 lettera d della legge sulle adozioni) è uno dei pochi strumenti legali disponibili, ma richiede un lungo iter giudiziario e prevede una valutazione discrezionale da parte del tribunale. Inoltre, non garantisce automaticamente gli stessi diritti della genitorialità biologica, creando disparità anche nei rapporti con i parenti del genitore adottivo.
Un nuovo passo avanti, dopo il passo indietro

Le associazioni che rappresentano le famiglie arcobaleno hanno accolto positivamente la sentenza della Cassazione, sottolineando come si tratti di una vittoria non solo simbolica ma concreta. Avere documenti che rispecchiano fedelmente la composizione familiare significa, infatti, evitare problemi pratici in numerose situazioni quotidiane: dall’iscrizione a scuola ai viaggi all’estero, dalle emergenze sanitarie alle questioni burocratiche.
Ma la decisione della Suprema Corte italiana, seppur limitata alla questione specifica dei documenti d’identità, rappresenta soprattutto un importante progresso verso il raggiungimento degli standard europei in materia di inclusività.
Speriamo non si debba tornare un’altra volta indietro.

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