
La crisi del lavoro stagionale e la rivoluzione del “Quiet Quitting”
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ToggleLa carenza di lavoratori stagionali nelle località turistiche
Siamo in piena estate e si parla di lavoro perché, come al solito, nelle località turistiche non si trovano lavoratori stagionali: cuochi, camerieri, bagnini, ecc. Secondo alcuni studi mancherebbero all’appello almeno diecimila figure professionali, un po’ perché non ci sono davvero, un po’ perché la precarietà occupazionale e i salari bassi non sono un buon incentivo per un giovane che debba scegliere di sacrificare la propria estate in vista di un impiego di tre mesi. Tuttavia, c’è una tendenza non stagionale ma strutturale in un mondo del lavoro che da trent’anni a questa parte è profondamente cambiato. Internet, la pandemia, gli orari flessibili, l’esplosione delle partite Iva, oltre a nuove consapevolezze, hanno completamente rivoluzionato il modo di pensare il proprio impiego. In una nota scena del film “Quo vado” di Checco Zalone, la maestra fa la più banale delle domande che si fanno a un bambino: «Tu Checco, cosa vuoi fare da grande?»; e lui: «Io voglio fare il posto fisso». Ma i ragazzi di oggi hanno ancora quelle prospettive? Possiamo ancora considerare come obiettivo di vita il posto in banca o alle Poste, il contratto indeterminato, la scrivania, la carriera?

Qualcosa sta cambiando nel modo di pensare il proprio futuro. Trent’anni fa, prima del mondo globalizzato e “smart” di Internet, si cambiava lavoro in media un paio di volte nella vita; oggi non è più così: durante il proprio percorso professionale, che comincia anche più in là negli anni, si può cambiare impiego anche sette o otto volte e trovarsi magari in ambiti completamente distanti dalle competenze acquisite con i propri studi. È come se il posto fisso andasse man mano scomparendo – e con lui il rapporto tradizionale tra datore di lavoro e impiegato vincolato al classico orario di otto ore. Alle nuove generazioni dovremo spiegare film come “Dalle 9 alle 5…orario continuato” (1980 regia di Colin Higgins) dove tre impiegate (interpretate dalla leggenda country Dolly Parton, Jane Fonda e Lily Tomlin) sognano di ammazzare col topicida il proprio arrogante e sessista capoufficio e poi si accontentano di rapirlo.
La nuova consapevolezza: Quiet Quitting:

Le persone stanno lentamente cercando di trasformare la propria vita in qualcosa che non ruoti completamente intorno al proprio impiego. Non si vive di solo lavoro e l’influencer Bryan Creely ha inventato una parola per descrivere questa nuova consapevolezza, il “quiet quitting”, letteralmente “abbandono silenzioso”, ovvero un lento e graduale allontanamento da una concezione della società basata sulla produttività e sul successo economico. Anche da noi non è più tempo di “yuppies”, dei giovani rampanti anni ’80 pronti a tutti per far carriera. Il “quiet quitting” è l’arte di non fare mai il passo in più, di lavorare il giusto, né più né meno. È il tentare di finirla con le e-mail serali o in vacanza, di fare riunioni che non portano a nulla, di farsi carico di compiti che non ci spettano. È, in un certo senso un modo per reclamare un pezzo della propria vita, strappato con delicatezza dalle fauci di un sistema che altrimenti ci schiaccerebbe, che ci vuole sempre connessi, presenti e performanti.
Non è da tutti però riuscire a lavorare il giusto ed essere comunque apprezzati. Basta poco per essere etichettati come fannulloni. In Cina si finirebbe per essere definiti “bai lan” (gli sdraiati) e qui da noi lavativi, parola che qualcuno fa derivare da una presa in giro nata nel mondo militare di fine 1600. I lavativi erano quelli che giravano sempre con lo scopettone facendo finta di essere sempre occupati a lavare per non ricevere altri incarichi più faticosi.

Se vogliamo imparare come si fa a lavorare di meno c’è un libro che può aiutarci dal titolo complicato “The Lazy Man’s Guide to Quiet Quitting” una vera guida per pigri al “lavorare con lentezza”, e che fotografa tutta una serie di figure che in modo scaltro si danno da fare per non lavorare. C’è il “coffee badging”, quello che passa gran parte della giornata alla macchinetta del caffè; c’è il maniaco del “presenteeism” che è il contrario dell’assenteista, quello che sta in ufficio sempre, ma il cui apporto si limita alla sola presenza. C’è il fenomeno del “resenteism” di quelli cioè che si sentono così insoddisfatti del proprio lavoro da sentirsi in trappola, da limitare il contributo al minimo e in più covando un crescente risentimento verso i superiori. È un fenomeno che investe in particolare le generazioni cosiddette millennials e Zeta, ovvero tutti quelli nati tra la metà degli anni ’80 e la prima decade dei 2000.
Ridimensionare il ruolo del lavoro

La società di ricerca Gallup, specializzata nel mondo del lavoro, ci svela che in Italia solo l’8% dei lavoratori si sente pienamente soddisfatto del proprio impiego e anzi il 18% di chi ha meno di 40 anni afferma di lavorare in un ambiente ostile e dannoso al proprio equilibrio psicologico. L’obiettivo numero uno, insomma, deve essere quello di rimotivare i lavoratori e in particolare i dipendenti, cominciando magari proprio a smantellare quello stile manageriale eccessivamente gerarchico e padronale, tipico italiano, che non è più adatto al mondo del lavoro di oggi.
In questo passaggio epocale c’è un grido di aiuto, una riconsiderazione del valore del lavoro nella nostra vita, di come bilanciare le esigenze della carriera con quelle di noi stessi e della nostra famiglia. Il lavoro è passato ad essere da strumento per la realizzazione personale a un mostro che divora il nostro tempo e le nostre energie. E il compenso economico non bilancia più tutto questo, non giustifica una bilancia pendente tutta dalla parte dell’azienda. O forse il “lavorare con lentezza” è anche il sintomo di generazioni che stanno perdendo fiducia nel futuro a tal punto da prendere seriamente in considerazione i bellissimi versi di Lorenzo il Magnifico: «Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: di domani non c’è certezza».
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