
Dopo Messico e Canada, che hanno concordato accordi commerciali e di sicurezza con gli USA pur di sospenderli per un mese, e Cina, con cui si sta discutendo, i prossimi dazi doganali di Washington potrebbero colpire l'Europa. Siamo pronti all'impatto?
Che l’Europa dovesse in qualche modo “pagare dazio” alla rielezione alla Casa Bianca di Donald Trump, si sapeva. L’impronta del 47° Presidente degli Stati Uniti è ben nota da tempo: difendere gli interessi e le aziende americane ad ampio raggio e in ogni modo possibile. Quello che forse non ci si aspettava era che si passasse dal… senso metaforico del termine alla prospettiva reale nel giro di neanche dieci giorni dal giuramento al Campidoglio. Sì, perché l‘accelerazione di Trump sulla questione è stata repentina e non ha lasciato margini di manovra, con l’annuncio di pesanti dazi da parte degli U.S.A. verso i “vicini” Nordamericani Messico e Canada e verso il principale competitor di Washington sullo scacchiere internazionale che è la Cina. A cui, però, ha fatto seguito una minaccia inquietante: “L’Unione Europea sarà la prossima”.
Una sorta di Donald contro tutti, con un approccio da film Hollywoodiano, in cui il salvatore dei valori e dei posti di lavoro di un’ “America Great Again” è disposto a lottare contro tutto il mondo per affermare le sue istanze e i suoi principi. Una mossa che, però, può avere un impatto devastante sullo scenario già abbastanza instabile dei rapporti internazionali.
Ma cosa implica e quale effetto potrà avere l’adozione di dazi doganali da parte degli USA, che potrebbe scatenare altrettanti provvedimenti di ritorsione da parte dei Paesi colpiti e una virata in senso protezionistico del commercio a livello mondiale? Non erano proprio gli Stati Uniti i fautori del “libero mercato”? E perché Trump “se la prende” anche con i vicini (Canada, Messico) e con “gli amici” (l’Europa)?
Andiamo con ordine.

Tariffe sospese per un mese a Messico e Canada
L’adozione di dazi su beni e prodotti di importazione ha riguardato, come detto, innanzitutto i “vicini” Messico e Canada, in ragione del 25%, e la Cina, con un inasprimento del 10% su quelli già in vigore dai tempi dell’amministrazione Biden. Formalmente, i dazi doganali annunciati da Trump per quanto riguarda Messico e Canada “sarebbero dovuti” entrare in vigore dal 4 febbraio. Ma già nelle scorse ore, al roboante annuncio è seguita quella che a un’analisi superficiale potrebbe sembrare una ritirata strategica, ma che invece appare come il “raccolto” della pressione esercitata: sia al Messico che al Canada è infatti stata accordata una sospensione per 30 giorni, durante i quali si effettueranno colloqui ad alto livello coordinati dal Segretario di Stato Marco Rubio e da quelli del Tesoro e del Commercio Bessent e Lutnick, per stabilizzare la situazione coi due Paesi, ma in cambio la – anch’essa neoeletta (ottobre 2024) – Presidente messicana Claudia Sheinbaum si è impegnata a dispiegare 10.000 soldati al confine e anche il dimissionario presidente canadese Justin Trudeau ha annunciato di aver attivato un piano da 1.3 milioni di dollari per rafforzare le frontiere. Il tutto per renderle più impermeabili al flusso dai due Paesi verso il territorio americano non solo di migranti, ma anche di droga (tra cui il famigerato Fentanyl, che si è diffuso a macchia d’olio nella società americana negli ultimi anni, facendo molte vittime o provocando gravi danni neurologici).

Più complesso il discorso con la Cina: l’adozione delle nuove tariffe è prevista per il prossimo 10 febbraio, ma in queste ore si stanno consumando una serie di mosse su diversi livelli, con il Dragone che risponde con la linea dura, annunciando dei contro-dazi su carbone e greggio USA e un ricorso al WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, ma con colloqui volti a raggiungere un accordo prima di quella data. Sullo sfondo, la questione non ancora risolta di TikTok, la piattaforma social di proprietà cinese, la cui sospensione sul territorio statunitense è stata messa in naftalina a patto che avvenga in tempi brevi un passaggio di proprietà in mani americane di almeno il 50% della società (si parla di un interessamento di Bill Gates o dell’intervento ad hoc di un fondo sovrano USA), cosa che Trump non smette di ricordare a ogni occasione.

Un ribaltamento degli schemi
Si tratta dunque di una diplomazia “del bastone e della carota”, come è stato giustamente definito. Una tecnica di contrattazione da manuale: sparo alto, ma per ottenere il mio vero obiettivo, più alla portata. Una modalità da affarista provetto quale Trump è, ma che in questa occasione può portare conseguenze gravi anche per gli stessi Stati Uniti in primis.
Evocare dazi, sia pur sospendendoli immediatamente, esacerba i rapporti e “costringe” gli Stati colpiti a reagire loro volta. L’aspetto insolito e che, in qualche modo, spiazza anche una parte degli stessi sostenitori di Trump nel mondo, e anche in Italia, è che gli USA, che pure furono “protezionisti” almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, almeno nella storia recente sono stati invece i campioni del capitalismo spinto, sostenitori, almeno a parole, del libero commercio e del libero scambio di beni, prodotti e servizi, e si sono sempre opposti alle misure protezionistiche adottate dai Paesi partner commerciali. Il tentativo, almeno dai tempi della conferenza di Bretton Woods nel 1944 che determinò la politica finanziaria e monetaria internazionale di parte della seconda metà del secolo scorso, è infatti sempre stato di abbattere i muri che si andavano a creare, non di crearne di nuovi.

Liberismo e protezionsimo: teorie economiche a confronto
L’idea è che favorire il commercio aumenti, ovviamente, sia il volume generale degli scambi, con più attori deputati a operare sul mercato e maggiori guadagni complessivi, sia il progresso tecnologico legato alla produzione. Certo, con più concorrenza si rischia di andare incontro a una contrazione delle vendite, ma a ciò si oppone, banalmente, la legge della domanda e dell’offerta: per vendere i miei prodotti devo darmi da fare e inventare nuove tecniche più convenienti per restare vantaggiosamente nel mercato e, tramite questo, posso acquisire un vantaggio sui concorrenti. Per acquistare risorse produttive, d’altronde, ho i prezzi migliori possibili, potendo contare su un mercato globale diffuso, limitato solo dai costi di trasporto. L’effetto del libero mercato, dicono dunque i fautori di questa teoria economica, alla fine è vantaggiosa per tutti, perché migliora sia la qualità che la quantità dei beni prodotti che le condizioni per acquistarle.
E invece la strategia di Trump appare esattamente opposta. Non gli importa se dovesse alla fine esportare di meno all’estero, se coloro che sono colpiti dai suoi dazi dovessero adottare tariffe doganali simili alle sue che dovessero rendere non conveniente l’acquisto dei suoi prodotti in giro per il mondo, o se avrà difficoltà a trovare le materie prime a un prezzo ugualmente conveniente.
Primo, perché in piena politica MAGA (Make America Great Again) è convinto di poter costringere con le pressioni politiche i Paesi oggetto dei suoi dazi a “comprare americano” in ogni caso (cosa che si sta peraltro rivelando in parte vera). Secondo, perché quello che veramente gli preme è che la “sua” economia, quella interna, sia stabile e giri a regime. Ognuno per sé.

Visioni contrapposte
Il tema se adottare misure protezionistiche convenga o no a uno Stato, è dibattuto da tempo. In generale, laddove la teoria economica ammette che per un Paese in difficoltà sarebbe meglio preservare la propria economia dalle “aggressioni” esterne, ossia la concorrenza internazionale, imponendo balzelli all’importazione che rendano più conveniente acquistare risorse e beni locali (e quindi produrre in loco, con tutti i benefici del caso sul tasso di occupazione interna), nel complesso la tesi prevalente è che, alla fine, la diminuzione totale degli scambi globali finisca per impattare negativamente anche su quel singolo Paese. Cioè, produci di più per te stesso, ma la richiesta dell’export si abbassa talmente tanto che alla fine il bilancio è comunque negativo e si ottiene un effetto inflattivo.
L’ipotesi che molti economisti fanno è che una politica dei dazi risulti controproducente alla lunga per gli U.S.A. Il suo sistema produttivo è fortemente interconnesso proprio con quei Paesi che vuole affliggere con le tariffe all’importazione: Il 40% dell’import a stelle e strisce proviene proprio da Messico, Canada e Cina e i due grandi “vicini” forniscono anche manodopera, risorse ed energia a bassa emissione di carbonio (l’idroelettrico dei Grandi Laghi canadesi) e partecipano all’integrazione dei sistemi di produzione, con parti del processo produttivo dislocate al di là dei rispettivi confini. Creare una barriera a questo interscambio diffuso significa probabilmente inceppare il meccanismo.

Trump, semplicemente, non ci crede o non se ne cura. O, pragmaticamente, va incontro alla percezione del “suo” popolo, che lo ha eletto e che ritiene che la situazione sia effettivamente quella di uno Stato in difficoltà e dunque queste misure di protezione siano necessarie.
Se però si parla non di un singolo Stato, seppur forte e potente come gli U.S.A., ma dell’economia mondiale, è invece certo che se la politica dei dazi statunitensi provocasse una rappresaglia dei Paesi colpiti, portando a una politica protezionista globale, il volume generale degli scambi internazionali sarebbe destinato a contrarsi.
Una prospettiva che quasi nessun Paese, al momento, a parte gli U.S.A (e la Cina), può permettersi.
Trump lo sa ed è questa la chiave di volta per capire il suo approccio. Minacciare e mettere in atto pesanti dazi commerciali crea sul breve periodo più problemi a chi li riceve che a lui. E dunque è un modo per rendere la controparte più malleabile sulle questioni che gli stanno a cuore.
E il prossimo “target” messo nel mirino è già dichiarato. L’Europa, ovviamente, o meglio, l’Unione Europea.

USA ed UE: “relazione complicata“
L’UE e gli Stati Uniti “vantano la più importante relazione bilaterale commerciale e di investimento e la relazione economica più integrata al mondo. Insieme rappresentano quasi il 30% del commercio mondiale di beni e servizi e il 43% del PIL mondiale. Nel 2023 gli scambi transatlantici di beni e servizi hanno superato 1.500 miliardi di EURO” (fonte: Consiglio Europeo). Scendendo nel dettaglio, gli Usa hanno esportato 346,5 miliardi di euro di beni nell’UE, importandone per 502,3 miliardi di euro, con un corrispettivo quindi di poco più di 155 miliardi a favore della Vecchia Europa. In compenso, gli USA hanno esportato 396,4 miliardi di euro di servizi nell’UE, a fronte di 292,4 miliardi di euro per quelli importati, con un disavanzo a loro favore di 104 miliardi. Complessivamente, dunque, calcolando sia beni che servizi, il bilancio complessivo è comunque a favore dell’UE (per 51,8 miliardi di Euro).
I principali terreni di scambio (ma anche di scontro) sono quelli legati all’automotive e ai prodotti agricoli e industriali.
Una delle caratteristiche principali dell’UE è quella di stilare rigidi e dettagliati regolamenti a tutela dei consumatori e delle economie degli Stati membri. Qualcosa che, da sempre, la pur non meno rigida amministrazione U.S.A. fatica a digerire e che in qualche modo limita l’export U.S.A. in Europa. L’impressione è che la vera “crociata” commerciale di Trump debba ancora arrivare e che le misure messe in atto contro i vicini fossero semplicemente le più facili da attuare, e insieme un “parlare a nuora perché suocera intendesse”.

L’altra caratteristica dell’Unione Europea, infatti, è di essere tutto meno che unita. I 27 Paesi che la compongono corrispondono ad altrettante “teste” che, sotto la minaccia di gravi rischi commerciali, potrebbero essere indotte a raggiungere accordi bilaterali invece di concordare una risposta comune. Il “grimaldello” di Trump per scardinare l’unità continentale, d’altronde, è costituito dalle stesse regole che l’Europa si è data. Egli può imporre dazi a singoli Paesi. Ma la politica economica dell’UE prevede che eventuali dazi di risposta possano essere varati solo in sede comunitaria: insomma, per “restituire il colpo”, l’Europa dev’essere unita. Cosa succederà invece, se, ad esempio pesanti dazi dovessero colpire Francia e Germania (i veri competitor dell’economia U.S.A.) o, ad esempio, l’Irlanda, ma solo in parte l’Italia dell’ “amica” Giorgia? O magari dovesse essere risparmiata l’Ungheria di Orban, o qualche altro Paese più “amico” di altri? Sarebbero davvero tutti compatti? Anche quei Paesi che non avessero subito le drastiche misure trumpiane?
“Divide et impera”. Potrebbe essere questa, dunque, la parola d’ordine di Donald Trump nella guerra commerciale più volte annunciata e prospettata contro l’Unione Europea. Che, al di là di un ulteriore aumento generalizzato dei prezzi di gas, petrolio e ovviamente derivati e lavorati (lo scopriremo presto, d’altronde), rischia di vedere messa in discussione la sua stessa natura. L’unione politica, di fatto, non esiste. Se anche la già debole unità in materia economico-finanziaria dovesse sciogliersi alla prima vera prova, cosa resterebbe del concetto stesso di “Unione” Europea?
La scelta di imporre dei dazi, quindi, oltre che commerciale, assume una rilevanza pienamente politica, una sorta di “messa alla prova” del Vecchio Continente. L’ennesima prova di forza.

Quando scatteranno i dazi?
Circa i tempi di attuazione promessi da Trump, il suo “presto” potrebbe significare in concomitanza delle elezioni tedesche del 23 febbraio, primo snodo cruciale di questo 2025 europeo, o subito dopo, per non ostacolare l’ascesa dell’Afd, “scelta” dal sodale Elon Musk come partito di riferimento in terra tedesca. Addirittura, secondo alcuni analisti, il timing dell’annuncio potrebbe invece scattare proprio qualche giorno prima del voto, per generare un’ondata anti globalista e mettere in difficoltà i partiti di governo.
In assoluto, la necessità di attendere potrebbe essere dovuta proprio al dover bilanciare i dazi sui singoli Paesi in modo da creare una disparità di trattamento e di risposte e poter affermare di non stare attaccando l’Europa, ma i singoli partner commerciali.
E, al tempo stesso, per provare a ottenere lo stesso risultato ottenuto con Messico e U.S.A. Ossia trattare sottobanco, col coltello dalla parte del manico e avendo dalla propria tutto il potere contrattuale che la minaccia di dazi di tale portata per l’economia europea porta con sé.
Per scongiurare il rischio, infatti, dietro la durezza delle risposte di facciata Macron o Von der Leyen – che si dicono ovviamente pronti a difendere con fermezza gli interessi dell’Europa e attuare misure di risposta altrettanto dure, mentre anche il Ministro italiano dell’Economia Giancarlo Giorgetti si proclama preoccupato e fermo sulla necessità di difendersi – i governi del Vecchio Continente potrebbero scendere a patti su diversi dei terreni di scontro e accettare condizioni più svantaggiose delle attuali in materia di interscambi economici. D’altronde la stessa Von der Leyen ha specificato: “saremo fermi, ma flessibili”. Lo scopo ultimo di Trump è favorire le imprese americane e se riesce a ottenere per esse vantaggi senza dover attivare i famigerati dazi, tanto meglio.

L’Europa alla prova della “yankee experience”
In conclusione, l’impressione è che Trump voglia in qualche modo “vendicarsi” delle tante regolette e balzelli cui i prodotti americani sono dovuti sottostare per varcare le frontiere europee ripagando l’Europa con la stessa moneta.
Un approccio da “Presidente Alfa”, cowboy 2.0, che in pieno “American style” non guarda in faccia nessuno e sapendo di essere più forte si prende quello che vuole. Saprà, l’Europa, partecipare a questo braccio di ferro con tutta la forza che le deriva dall’essere un corpo composto da 27 parti? E soprattutto, saprà, una di queste 27 parti, o il loro insieme, dimenticare di voler essere il braccio che muove i fili, o il cervello che guida con fredda razionalità l’organismo complesso degli Stati del Vecchio Continente, e difendere, per una volta, l’interesse generale con il cuore?

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