
“Fate in fretta”: il drammatico appello di Cecilia Sala accelera le mosse del governo
La giornalista Cecilia Sala, detenuta in carcere a Teheran da 14 giorni, ha potuto sentire ieri i familiari, svelando le sue dure condizioni di detenzione: il governo cambia passo.
“Fate in fretta”. Tre parole. Che mettono angoscia. Cecilia Sala non fa che ripeterlo, dall’inizio: fate in fretta. L’ha chiesto nel primo contatto con i familiari, avuto qualche giorno dopo essere stata fermata, la mattina di giovedì 19 dicembre, mentre stava per imbarcarsi da Teheran per tornare in Italia. L’ha ribadito nel corso delle tre telefonate che le sono state concesse ieri, 1 gennaio, a Capodanno, per santificare le Feste. Una breve chiamata alla madre, una al padre, l’altra al compagno, il collega giornalista de Il Post Daniele Raineri. “Fate in fretta”, un appello che inquieta a maggior ragione perché proviene da chi quel Paese, l’Iran, lo conosce bene.

Detenuta in una cella di isolamento nel severo carcere di Evin, la reporter 29enne esperta di Medio Oriente rivela di dormire per terra, di avere a disposizione solo due coperte, una utilizzata per sdraiarsi, l’altra per coprirsi e ripararsi dalle temperature estremamente rigide. La luce, al neon, è accesa incessantemente nella piccola cella vuota dove Cecilia è detenuta (e continuamente spiata). Non ha gli occhiali da vista, le sono stati tolti. L’unico contatto umano avuto finora è durato trenta minuti, il 27 dicembre, ed è stato con l’ambasciatrice italiana in Iran, Paola Amedei. Privata di qualunque contatto con l’esterno (le viene passato il cibo, prevalentemente datteri, attraverso una fessura) e di ogni genere di prima necessità, Sala ha riferito di non avere mai ricevuto il pacco che l’ambasciata italiana aveva consegnato alle guardie carcerarie e che la Farnesina, sulla base di quanto riferito dalle autorità iraniane, aveva assicurato esserle stato recapitato. Il pacco conteneva 4 libri, pane per l’Anima, un panettone e del cioccolato, per ricordarle che in Italia è stato Natale, qualche articolo per l’igiene, per restituirle dignità, e una mascherina, per potersi coprire gli occhi e riposare un po’. Non ha avuto niente. Le sue condizioni di detenzione appaiono simili a quelle riservate ai prigionieri politici del regime degli ayatollah; l’isolamento è chiaramente un metodo punitivo, una tortura che punta ad atterrire il detenuto, causandogli ansia, disorientamento e forte sofferenza.

Ricordiamo che, fermata inizialmente senza che le venisse formalizzata un’accusa, la sua “colpa” è stata resa nota solo 11 giorni dopo l’arresto, il 30 dicembre. Un vago: “Ha violato la legge della Repubblica islamica dell’Iran”. Come, non è dato sapersi. Entrata in Iran il 13 dicembre con regolare visto giornalistico, Cecilia ha sempre indossato il velo e svolto il suo lavoro, costantemente monitorata. Nessun reato, dunque. Considerato che il giornalismo non è un reato. Come ha ribadito l’Alto Commissario UE, Kaja Kallas, parlando del caso.

Tornando ai fatti, alle parole della giornalista è subito seguita una richiesta, fatta ieri, 1° gennaio, dall’Italia al governo dell’Iran: la liberazione immediata di Cecilia Sala e «garanzie totali sulle condizioni di detenzione».
Nella mattinata di oggi, 2 gennaio, è invece avvenuto un incontro tra il segretario generale della Farnesina, l’ambasciatore Riccardo Guariglia e l’ambasciatore iraniano a Roma, Mohammad Reza Sabouri. Nel corso del colloquio durato circa un’ora, l’Iran “ha tolto il velo” su quali siano le reali intenzioni della Repubblica islamica e le vere motivazioni del fermo della reporter: Sala è stata presa in ostaggio, come “merce” di scambio. Il suo destino sembra essere infatti legato a doppio filo a quello dell’ingegnere iraniano, esperto di droni, Mohammad Abedini-Najafabadi, arrestato il 13 dicembre a Malpensa e in attesa di decisione sull’estradizione richiesta dagli Stati Uniti. Il 38enne è accusato da Washington di associazione per delinquere, di violazione delle leggi sull’esportazione delle armi e di essere al soldo dei pasdaran del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica, considerati dalla Casa Bianca un’organizzazione terroristica.

La questione, però, si complica. Sì, perché l’avvocato che segue Abedini, Alfredo De Francesco, aveva avanzato richiesta di concedere al suo assistito (attualmente detenuto nel carcere di Opera) gli arresti domiciliari. A questa concessione sembrava essere legata la sorte della nostra connazionale, stando a quanto emerso dall’incontro di oggi alla Farnesina con l’ambasciatore iraniano: i domiciliari di Abedini in cambio della liberazione di Sala. Arriva però dalla Procuratrice generale di Milano Francesca Nanni il parere negativo alla richiesta del legale dell’ingegnere iraniano. Abedini resta in carcere, proprio come Cecilia Sala. Non è tutto: trapela anche un’altra notizia. L’esistenza di una lettera, trasmessa per via diplomatica dalla giustizia americana, nella quale si afferma la pericolosità del cittadino iraniano fermato a Malpensa e la necessità della detenzione in carcere. La parola sul destino di Abedini ora passa ai giudici della Corte di Appello, in un’udienza che sarà fissata nei prossimi giorni.

Nel frattempo, a Palazzo Chigi, il governo s’è desto. La premier Giorgia Meloni ha infatti convocato nel pomeriggio di oggi un vertice urgente con il ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, il Consigliere diplomatico del Presidente, Fabrizio Saggio e i vertici dei Servizi di intelligence. Con un comunicato ufficiale, rilasciato appena dopo la chiusura del vertice, si ribadisce la richiesta di liberazione di Sala, si conferma che le condizioni di detenzione nel carcere di Opera di Abedini sono rispettose dei diritti (a sottolineare il differente trattamento dei due detenuti) e si annuncia che domani mattina il Presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubbilca, Lorenzo Guerini, riferirà al COPASIR e per suo tramite al Parlamento, in risposta alla richiesta delle opposizioni di essere coinvolte.
L’obiettivo è quello di chiarire a tutti che la priorità del governo italiano è la liberazione di Cecilia, a costo di violare il bon ton internazionale e incrinare rapporti diplomatici. C’è una finestra di tempo importante per poter disattendere le richieste statunitensi (e dunque dire no alla richiesta di estradizione di Abedini negli States): i giorni che vanno da ora al 20 gennaio, data dell’insediamento ufficiale di Donald Trump alla Casa Bianca. Dire di no a un uscente Joe Biden è certamente meno pesante a livello diplomatico per il governo italiano, piuttosto che fare uno “sgarbo” a un Trump appena insediato.
Resta da vedere chi sarà a pronunciare questo no. Se il tribunale di Milano oppure, laddove quest’ultimo acconsentisse all’estradizione, il Guardasigilli, facendo appello all’articolo 697 bis del codice di procedura penale che gli dà facoltà di dire no quando l’estradizione “può compromettere la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato”.

Subito dopo il vertice, Meloni ha ricevuto la madre di Cecilia Sala, Elisabetta Vernoni, e parlato al telefono con il padre, Renato Sala. «Sono preoccupata per le condizioni di vita carceraria di mia figlia, si trova evidentemente in una cella di punizione. Devono essere condizioni che non la segnino per tutta la vita», ha detto la madre della giornalista con la voce incrinata dall’emozione.
Cambia il passo dunque. Se nei primi giorni, infatti, si era invitato alla cautela (anche mediatica) sul caso di Cecilia per non complicare le trattative, l’Italia adesso sta tirando fuori la voce.
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