
"La cura per me" è tra i brani più ascoltati e virali su radio, social e app di streaming, ma il sesto posto ottenuto al Festival di Sanremo fa ancora discutere. Proviamo a capire cosa davvero è andato storto sul palco dell'Ariston.

“La classifica del Festival non conta, quella che conta davvero è la classifica degli ascolti nei giorni successivi”. È la frase, un po’ consolatoria, che in stile “Non ci sono più le mezze stagioni” viene ripetuta, tipo mantra, dagli addetti ai lavori, durante tutta la settimana sanremese e anche dopo. Ma ditelo a Giorgia, che è esplosa in un fiume di lacrime e commozione quando è uscita sul palco a ritirare il Premio Tim dopo aver saputo di essere arrivata sesta, che “la classifica non conta”…
Eppure, anche per lei, questa legge non scritta del Festival si sta rivelando valida come non mai.
Sarà forse per un senso diffuso di sgomento e sorpresa per l’ “ingiustizia” di averla addirittura fatta rimanere fuori dalla cinquina finalista, sarà perché canzoni come le sue “arrivano dopo”, ma La cura per me, il suo brano sanremese, è tra i più ascoltati sulle radio, insieme a quello di Achille Lauro, settimo alla kermesse, secondo il sito Earone che registra i passaggi radiofonici in Italia.
Addirittura, la sua canzone è prima per “riutilizzo” su TikTok: cioè, tra i brani di Sanremo, il suo è quello più usato come base per i video e i contenuti dei creator della piattaforma. Insomma è il brano più “virale”, nel senso più tecnico del termine
Il tutto senza minimamente nulla togliere a Olly, che si sta difendendo benissimo con il terzo posto tra le radio e spopola su Spotify, popolare app di streaming audio e musica (che invece rispecchia esattamente l’esito finale della kermesse: lui e Lucio Corsi sono i più ascoltati, Giorgia è comunque quarta e non sesta anche lì).
E, tuttavia, il brano della cantante romana – e soprattutto il fatto che la sua interpretazione sia stata penalizzata dalla classifica finale di Sanremo – sembra davvero essere l’argomento che più ha smosso le discussioni post-festival sulle varie piattaforme.

“La sua voce è patrimonio nazionale!”, tuonano gli ammiratori. “Come avete potuto tenerla fuori dalla classifica finale”, si è scagliata Elodie il giorno dopo la fine del Festival, sdegnata, contro giornalisti e addetti ai lavori nell’ospitata-conferenza stampa di tutti i cantanti a Domenica in.
E, facendo un giro tra i social, si è tempestati di utenti che ripostano video di Giorgia, con le sue tre interpretazioni sanremesi messe a confronto per sottolineare la perfezione della sua vocalità in ognuna di esse, con ospitate radiofoniche in cui la cantante romana parla di tutto, di come abbia dovuto mettersi a ristudiare per essere all’altezza della sua storia, o del backstage con Annalisa, con lei che racconta come quasi non si fossero rese conto di aver vinto la serata cover. O di lei che scherza sull’autotune, raccontando che avrebbe voluto usarlo ma i suoi manager le hanno riso in faccia, o di lei che prova effettivamente a usarlo con risultati pessimi, perché il sistema di correzione della voce quella della cantante la corregge sì, ma in peggio, togliendo tutte le gradualità e sfumature che lei è capace di dare e sfornando un suono robotico. E poi, proseguono, la canzone è stata scritta da Blanco, mica da Nilla Pizzi (con tutto il rispetto per Nilla Pizzi). Nel senso, è un brano attuale, dei nostri tempi. Insomma, il pezzo di Giorgia ha raccolto un’ondata di vibes positive, nei giorni successivi al Festival.

Ma allora, se il mood generale è così positivo, se tanta gente percepisce come scandalosa la votazione dell’Ariston, se così tanti ci tengono a portare alla sua bravura e professionalità un riconoscimento, cercando conferma tra i propri follower, se lo stesso pubblico del Teatro Ariston ha scandito a gran voce in coro “Hai-vin-to… hai-vin-to!” mentre le si bagnavano gli occhi di un misto tra delusione e commozione nel ricevere il premio TIM… Insomma, se il giudizio post-voto appare così a lei favorevole…
…Cosa è andato storto sul palco di Sanremo?

La principale critica, che si riscontra già dopo la prima esibizione e nei commenti durante i giorni della kermesse, e anche in risposta ai post positivi dei giorni successivi è “Sì, bravissima, bella voce e tutto, ma non ha emozionato”. “La cura per me” sarebbe stata insomma penalizzata dalla troppa tecnica, troppi vocalizzi. “La canzone è banale”, un altro rilievo che colpisce il suo brano, “evidentemente c’era di meglio e bisogna accettare i giudizi di chi ha votato”. A rincarare la dose ci ha pensato poi Mogol che ha dichiarato che Giorgia «ha una voce fantastica, ma canta come si cantava trent’anni fa», offrendole poi, con gran simpatia, un corso gratuito al Centro Europeo di Toscolano, la scuola di musica per autori, musicisti e cantanti che il paroliere n°1 in Italia ha fondato e guida dagli anni ’90.
Una presa di posizione che ha generato un’alzata di scudi a difesa della cantante, a partire dal padre, Giulio Todrani, professionista apprezzato nel mondo della musica, che ha specificato che sua figlia non ha bisogno di lezioni da nessuno. L’artista romana poi ci ha pensato lei stessa, ospite di Fabio Fazio domenica sera a Che tempo che fa, imbeccata dallo stesso conduttore, a mandare una frecciatina di risposta a Mogol: “Ma dove si firma per avere la stessa voce dopo trent’anni?”. E ha risposto da par suo. Cioè cantando e col sorriso.

Eppure, l’interrogativo rimane. Se la canzone di Giorgia non ha sfondato nei giorni dell’Ariston, vuol dire che qualcosa nelle delicate alchimie del Festival non ha funzionato.
Abbiamo analizzato per voi – e vorremmo analizzare insieme a voi – alcuni aspetti del brano portato a Sanremo e dell’interpretazione di Giorgia, al di là delle polemiche sui meccanismi di votazione generali che sicuramente non hanno valorizzato la cantante rispetto a beniamini della massa del pubblico votante, per cercare di rispondere a questa domanda.
N.B.: per proseguire la lettura dell’articolo cliccare nell’ordine sulle varie schede sottostanti: 1. La musica, 2. Il ritmo, etc…)
1.
La musica
Come in praticamente tutti i brani sanremesi di quest’anno, dal punto di vista musicale non ci sono particolari soluzioni innovative per quanto riguarda l’armonia, la melodia o l’arrangiamento, che facciano risaltare il brano in modo particolare rispetto ad altri. Le modulazioni e le progressioni sono tutte abbastanza “classiche” (con un’unica, leggera, eccezione proprio all’inizio dell’accompagnamento di pianoforte, al quarto accordo, con una transizione al IV grado che però “rientra” subito sull’impianto della tonalità all’accordo successivo) che mantengono il pezzo, dal punto di vista armonico, abbastanza nei canoni di ciò che si sente quotidianamente.
(per proseguire l’articolo cliccare sulle successive schede: 2. Il ritmo, 3. il ritornello, etc…)
2.
Il ritmo
Un “quattro quarti” mantenuto per tutta la durata del brano è la base per una scrittura, rispetto ad altri successi di Giorgia, fin da subito “pressante”: nell’intro, le sillabe delle frasi e le strofe del testo si susseguono, con Giorgia che deve prendere velocemente il respiro per pronunciare la frase successiva, con una melodia molto “mobile” e poco definita, non facile da cantare e che Giorgia maneggia con maestria, ma che fatica a fissarsi nella memoria di chi ascolta. L’ingresso degli archi, poi, prepara l’arrivo della parte “forte” del brano, IL RITORNELLO con un’ “apertura” immediata che, ad avviso di chi scrive, è uno dei veri grandi “difetti” non visti, in fase di preparazione, del pezzo.
3.
Il ritornello
Il cambio di scenario si avverte subito: forse troppo presto. Sulle parole della prima frase “Non so più quante volte ti ho cer-CA-to-o-oo” si ha il picco dell’intera canzone, con un salto di ben una decima tra il FA diesis basso del “cer-” e il LA alto su “-CA-” di “cercato”. Da quel punto della strofa, l’andamento poi tende a riabbassare progressivamente il registro vocale (“su quegli occhi, su quegli occhi che fanno da Luna”). Cioè: il massimo arriva subito e poi è seguito da un andamento discendente, che va a spegnersi nel prosieguo della strofa, salvo poi ripetere il “lancio”.
In realtà questo non è del tutto vero fino in fondo: un paio di volte, nel prosieguo della canzone, alcuni vocalizzi o una sillaba non accentata (As-PET-taa-a-a-a-tooo-OOO-o) raggiungono il SI naturale, o addirittura il DO, al termine del bridge, sulla “a” della parola “sola”, che riporta poi sul ritornello, ma sempre di passaggio.
Insomma, al di là dei discorsi tecnici, l’impressione che si ha del pezzo (del ritornello) è che esploda subito e poi vada a decrescere, a spegnersi, per poi ripartire e rispegnersi. Questa è una cifra stilistica che ritroviamo molto nella musica della nuova generazione di autori (e Blanco, che firma il pezzo insieme alla stessa Giorgia e a Michele Zocca, alias Michelangelo, ne è sicuramente uno dei rappresentanti più vivi).
Anche Fai rumore di Diodato, per esempio, “esplode” all’inizio del ritornello, per poi spegnersi via via. Con una grande differenza. Che quello era il titolo della canzone e non un participio. Era più incisivo e “restava” molto di più.
4.
L’interpretazione, vero punto focale.
La cura per me è una canzone, nella sua scrittura, nel complesso più “nervosa”, per esempio di Come Saprei o Di sole e d’azzurro (che erano brani, al loro interno, più ariosi), con salti di ritmo e intervalli melodici talvolta anche molto stressed: come abbiamo visto sopra, il ritmo del pezzo dà vita a una canzone più grintosa, nel solco delle scelte degli ultimi anni di Giorgia (anche Parole dette male presentata nel 2023 sempre a Sanremo aveva questa caratteristica), segno apprezzabile del fatto che la cantante stia cercando nuove strade per far evolvere la sua vocalità.
Il problema che identifichiamo in questo pezzo, però, è che il tipo di scrittura scelta per il brano non dà “abbastanza aria”, non sempre cioè renda naturale il tentativo di abbinarvi gli svolazzi della voce che sono il cavallo di battaglia della vincitrice di Sanremo ’95. O, quando lo fa, li interrompe troppo presto.
Parlando qui solo dell’aspetto prettamente musicale, e non del testo, i continui vocalizzi, nel ritmo serrato dell’intro e poi del ritornello, appaiono talvolta persino fuori contesto: non hanno il tempo di “arrivare” e slanciarsi che già cominciano i nuovi, con la frase successiva che attacca sul terzo dei quattro tempi della nuova misura. L’effetto finale è quello di una canzone che si apre e si chiude, si apre e si chiude continuamente, ma non “esplode” mai veramente, quando sembra farlo c’è già la fase di riflusso della voce che “riprende” l’emozione che si stava scatenando. Parte delle critiche “non mi emoziona” colte sui social potrebbero dipendere anche da questo.
Non si tratta di aver messo “troppi” vocalizzi. Ma di averne previsti troppi rispetto allo spazio che riservava la canzone, che quindi hanno finito per essere, forse, percepiti non come funzionali, ma di maniera, in qualche modo artefatti.
In più, la voce di Giorgia “arriva” fin quasi da subito, diretta e potente, anche nell’intro il volume parte già medio-alto. La dinamica generale del pezzo ne risente, con un effetto “a tutta potenza” che restringe le possibilità stilistiche di interpretazione e i colori possibili da dare alla voce.
Non è detto che la prima parte andasse più sussurrata di come l’ha interpretata lei, è una scelta, ma di certo è un fattore che può contribuire a dare meno “spazio” al pezzo per come è concepito.
Insomma è come se la scrittura musicale non si fosse messa del tutto al servizio delle esigenze della cantante di far sentire i magnifici virtuosismi della sua voce. Quelli che fanno, di Giorgia, Giorgia.
5.
Il titolo
Un ultimissimo rilievo, prima di inoltrarci nel testo, lo facciamo sul titolo, troppo, troppo simile a La cura di Battiato: ha contribuito, forse, anch’esso a dare la sensazione di già sentito.
Dentro la mano una carezza sul viso
Senz’anima questo sorriso
Che hai cercato, che hai cercato
Più ti avvicini e più io mi allontano
E i ricordi se ne vanno piano
Su e giù come un ascensore
Ogni mia stupida emozione
E no, non cambierà
Dirti una bugia o la verità
Per me fare una follia è come la normalità
Non so più quante volte ti ho cercato
Per quegli occhi, per quegli occhi che fanno da luna
Non so più quante notti ti ho aspettato
Per finire a ingoiare tutta la paura
Di rimanere sola
In questa stanza buia
Solo tu sei la cura per me
Tutto passa
Ma scordarti non so ancora come si faccia
Qualcosa lo dovevo rovinare
Nascondo una lacrima nel mare, ferito
Voglio andare avanti all’infinito
Trovarti dentro gli occhi di un cane smarrito
E no, non cambierà
Dirti una bugia o la verità
Per me fare una follia è come la normalità
Non so più quante volte ti ho cercato
Per quegli occhi, per quegli occhi che fanno da luna
Non so più quante notti ti ho aspettato
Per finire a ingoiare tutta la paura
Di rimanere sola
In questa stanza buia
Solo tu sei la cura per me
No che non ho voglia
Non ho voglia di rincorrerti
Seguire la tua ombra e salire fino sugli alberi
Guardando il cielo sapendo che lo stai guardando
Ora anche tu
Per me sei la luna
Per me sei la cura
Per me sei avventura
Ma non sei nessuno
Spengo la paura
Di rimanere sola
Per quegli occhi
Per quegli occhi che fanno da luna
Non so più quante notti ho aspettato
Per finire a ingoiare tutta la paura
Di rimanere sola
In questa stanza buia
Non sarò mai più sola
Per me
6,
Il testo
Un’ulteriore problematica potrebbe essere dipesa, a giudizio di chi scrive, dall’interpretazione di Giorgia del testo.
Molto bello a leggersi, con una presa di consapevolezza personale sulla fine di un rapporto che attraversa varie fasi lungo tutta la canzone, dalla disperazione, alla paura, al rammarico per i propri e gli altrui errori, per approdare infine alla presa di coscienza di sé, che non dipende e non deve dipendere dall’altro.
Tutto il senso profondo del testo si può, di fatto, racchiudere nel processo di cambiamento che fa passare la frase finale del ritornello da:
“In questa stanza buia / solo tu sei la cura / per me”
a:
“In questa stanza buia / non sarò mai più sola / per me”.
Giorgia però, come abbiamo detto ha l’esigenza (diremmo quasi “il dovere”, con la splendida vocalità che ha), di far sentire la sua tecnica assolutamente cristallina, per cui è ammirata ovunque in Italia e nel mondo. Cosa che però la porta a tirare dritto sul corpo delle varie frasi per far sentire a piena potenza vocale le ultime parole delle stesse. Quello che rimane del testo a chi ascolta (soprattutto al primo, secondo e terzo ascolto come avviene a Sanremo) sono una serie di termini, “cercato”, “paura”, alberi”, “luna”, “sola”, che però si stenta a collegare tra loro perché, per preparare l’esplosione vocale su queste parole Giorgia tende un po’ a “scivolare” col volume sonoro su quelle che le precedono, o a non dar loro sufficiente risalto (e che però invece, proprio a quelle parole “finali” della frase danno il senso).
Inoltre anche all’interno della stessa parola, risuona molto di più la sillaba su cui si accende il vocalizzo che non le altre. Ad esempio, se ci fate caso, Giorgia dice spesso: “…a rimanere sólàà”, con la “ó” chiusa che non aiuta a concentrarsi sul significato del testo, ma spinge l’attenzione sulla dinamica vocale.
Di conseguenza, tutto questo processo di cambiamento, questo slittamento epistemologico che è presente all’interno del testo e che dà il senso poi al brano stesso, si perde.
Maschile e femminile
Un ultimo rilievo potrebbe focalizzarsi sul fatto che alcune metafore scelte dal testo si rivelano poco evocative. Qui però ci addentriamo nel campo dell’ipotesi e dell’interpretazione pura, ma lasciamo al lettore stabilire se tale rilievo abbia un senso.
Dall’ “..io ci sarò… come Domenica di sole e d’azzurro” di ieri al “Per quegli occhi, quegli occhi che fanno da Luna“, o, come dice dopo più esplicitamente, “Tu se per me la Luna“, di oggi, il passo non è breve.
Si immagina che la “penna” di questa frase possa essere più di Blanco, che non di Giorgia. Ma ciò crea uno scarto nella percezione. La scelta “planetaria” (la Luna), si incentra qui su un simbolo femminile, ma a parlare è già una donna. La quale difficilmente direbbe di un uomo che per lei è la Luna. Immagine molto più geniale e poetica, ma non immediata.
A meno di non entrare nei meandri o di un rapporto saffico, o di un rapporto non amoroso ma di affetto ad esempio genitoriale, ma null’altro nel testo farebbe pensarlo.
Oppure, a meno di non intendere la Luna come un “faro che illumina il buio”. Ma, in tal caso, il livello di immedesimazione che vorrebbe far scattare questa locuzione, ancora una volta, non appare immediato, necessita di un momento in più di riflessione (perché quegli occhi fanno “da Luna” e non “da Sole”?). Momento di riflessione che, per altro, come detto, la scrittura del brano, soprattutto nel bridge serrato, non dà, perché è subito soppiantato dal più efficace “Tu sei Avventura” in cui più facilmente, in una storia d’amore, ci si può riconoscere.
Insomma, da qualche parte bisogna pur tirare la coperta e, per far risaltare la vocalità, talvolta Giorgia tende a non far risaltare la semantica delle parole che pronuncia. Un “difetto” che è in controtendenza assoluta con i gusti musicali degli ultimi anni, formatisi su frotte di brani di artisti indie e trap che fanno esattamente il contrario: cioè proporre testi – almeno come intenzione – significativi, spesso avvalendosi anche di giochi di parole, rime e accostamenti azzardati, ma accompagnandoli con musiche e ritmi tutto sommato blandi e standardizzati, al servizio del significato del testo. Considerazioni musicate, in cui la rilevanza primaria è data alla parte scritta.
Ed è qui che, forse, si innesta veramente il senso della polemica, davvero fuori luogo nella modalità con cui è stata espressa, di Mogol. Il modo di cantare di Giorgia, centrato sull’espressione della tecnica e purezza vocale, nella quale, grazie a doti naturali, talento e dedizione è davvero unica e inarrivabile, non si è incastrato bene con una canzone che è invece lo specchio della composizione autorale degli anni più recenti, basata su slittamenti di testo, e come abbiamo visto prima, per la parte musicale, spostamenti di ritmo e “ondate” che si accendono e spengono, per poi ritornare, con un percorso “a chiudersi” che è molto tipica del tormento che esprimono nei loro brani gli autori contemporanei. I quali però esprimono le emozioni e richiamano l’attenzione dell’ascoltatore con accorgimenti diversi, lungo tutta la canzone e rinunciando semmai all’ “esplosione” canora e sonora classica. Cosa che Giorgia non ha nel suo DNA.
7.
Le conclusioni
Quindi sì, qualche ragione Mogol in realtà potrebbe averla. Per dirla con una canzone di Giorgia, le sue sono “Parole dette male”, ma potrebbero avere un fondo di verità. Applicare i gorgheggi “alla Giorgia”, con la maestria di Giorgia, su un brano impostato per una vocalità del 2025, anche se non ha reso come forse gli autori, i produttori e la cantante speravano, rimane comunque un esperimento interessante, che lascia traccia e può soprattutto dare una traccia per il futuro qualora si riuscisse a trovare un equilibrio più bilanciato tra le varie componenti della canzone. L’auspicio è che La cura per me venga considerato, dai critici del futuro, il passaggio fondamentale che serviva per “tarare” la vocalità immensa di Giorgia su un gusto musicale variato nel tempo e su una nuova espressività artistica, e che siamo a un passo da un prossimo capolavoro in cui testo, musica e vocalità viaggino nella stessa direzione. Senza bisogno di “lezioni” da nessuno. La “cura” per la vocalità di Giorgia la può trovare solo Giorgia. Almeno questo, del senso della canzone, lo abbiamo capito.

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