
Il Concerto di Colonia di Keith Jarrett compie 50 anni
Il celebre Köln Concert fu registrato il 24 gennaio 1975 ed è divenuto uno dei dischi jazz più ascoltati e venduti. Un capolavoro nato in circostanze imprevedibili che ha segnato un'epoca e influenzato generazioni di pianisti
Può un brano musicale totalmente improvvisato entrare nel repertorio dei pianisti di tutto il mondo fino a negare la sua stessa natura, essere cioè reinterpretato pari pari, dalla prima all’ultima nota, senza lasciare spazio per alcuna ulteriore improvvisazione? Può, se il brano in questione si chiama Köln Concert ed è frutto del genio estemporaneo, ma fulminante, di uno degli artisti che hanno scritto la storia del jazz e del pianismo moderno negli ultimi sessant’anni, Keith Jarrett.
Oggi, 24 gennaio, cade il 50° anniversario della sua opera più famosa, quel Concerto di Colonia che ha segnato in modo inesorabile un’era musicale e rappresenta uno degli album più venduti della storia del jazz, 3 milioni e mezzo di dischi. Registrato esattamente cinquant’anni fa, il 24 gennaio 1975 al Teatro dell’Opera di Colonia, alle 23 e 30 di sera perché gli slot precedenti erano occupati – per l’appunto trattandosi di un Teatro dell’Opera – dalla rappresentazione di un’opera e il Teatro aveva messo a disposizione degli organizzatori solo quell’unico orario.

Non l’unica stranezza legata a quella serata. Anzi, le premesse per un concerto disastroso c’erano tutte. È ormai storia, anzi mitologia della musica, l’aneddoto che vuole che Jarrett, imbufalito perché non aveva trovato a disposizione il pianoforte marca Bösendorfer che aveva richiesto, un “290 Imperial”, con un’estensione più ampia dei consueti 88 tasti, ma uno più piccolo, della stessa marca ma di qualità inferiore, che veniva usato dal coro del teatro, peraltro male accordato e con un pedale rotto, fosse intenzionato a disertare la serata e non suonare. Alla fine si riuscì a convincerlo grazie anche all’intervento di un accordatore, ma la resa del pianoforte era comunque scarsa e per via dell’umidità di quella giornata i toni estremi, quello più grave e le note più acute, risultavano comunque striduli e deboli, per cui Jarrett si dovette ingegnare a suonare per tutto il tempo nel registro centrale della tastiera.
Un altro aneddoto riguarda le note iniziali del concerto, che Jarrett riprese, pare, dal jingle che richiamava in sala il pubblico che si attardava nella hall , tanto che all’inizio della registrazione del concerto si sente la risata di uno spettatore che se ne rende conto (sia pur con tempi di reazione da umorismo tedesco).

Quelle note iniziali, divenute icona e simbolo di uno degli album più venduti nella storia del jazz, anzi dovremmo dire della musica, danno la stura a un flusso ininterrotto di creatività, fatta di cascate di note, sospensioni eteree, mugugni, battiti del piede sul pavimento in legno del palco: sessantacinque minuti di improvvisazione partendo da zero, anzi dal jingle di un altoparlante. “Non ho neanche un seme quando comincio”, ha avuto a dichiarare Keith Jarrett riguardo alle sue performances pianistiche. Non sempre è del tutto vero, ci sono, sporadicamente, nella sua immensa produzione pianistica, brani che prendono spunto da melodie riconoscibili, o ben noti standard del jazz, ma è vero che l’approccio del pianista nato ad Allentown, Pennsylvania, l’8 maggio 1945 a ogni suo concerto è quello di non avere nulla di programmato. Il suo manifesto espressivo è non sapere da dove iniziare, a quale spunto appigliarsi prima di toccare la prima nota della tastiera e non sapere quale seguito darà a quella nota, prima di averlo suonato. È come se la melodia fosse sospesa “in potenza” nella sala da concerto, legata ai respiri, ai suoni, alle persone, all’architettura, all’odore dell’aria, e il pianista, nel momento in cui esegue le note, fosse l’artefice del processo che trasforma quella tensione ideale in materia sonora. Ed è così che da poche note Jarrett crea delle storie in musica, dei quadri che si rincorrono, tanti piccoli ponti tra il suo vasto mondo e quelli di coloro che ascoltano, alternando momenti di riflessione e altri di esplosione con un sapiente mix degno di uno sceneggiatore di Hollywood.

Venticinque minuti dura la prima parte di quel concerto (indicata sul disco come part I), a cui fanno seguito due spezzoni di quattordici e diciotto minuti (part II a e II b), così divisi per poterli inserire nel vinile che fu poi prodotto nel novembre di quell’anno, ma originariamente parte di un’unica improvvisazione e un bis, sempre improvvisato, ma prendendo come spunto una sua precedente composizione, indicato come part II c. Poco più di un’ora totale di registrazione che è la testimonianza di un momento unico e irripetibile, quello in cui il mondo si accorge che quel pianista cresciuto alla scuola di Miles Davis non è “solo” jazz, ma restituisce qualcosa che è musica assoluta. C’è il jazz, certo, ma ci sono echi classici, il blues, l’ipermoderno, in un miscuglio che incanta e che è come una firma.
Generazioni di pianisti hanno preso a modello il Köln Concert, traendone ispirazione per staccarsi dal jazz come mera improvvisazione sui temi degli standard.
Anche diversi registi lo hanno sfruttato come colonna sonora per i loro film, rimane impresso nella memoria il sottofondo jarrettiano alle evoluzioni in Vespa di Nanni Moretti nel primo episodio di Caro Diario mentre ripercorre i luoghi del ritrovamento del corpo di Pasolini.
La musicalità del jazz di Jarrett travalica i confini del jazz. A meno di non seguire la definizione data da Baricco in Novecento: “Se non sai cosa stai suonando, è Jazz”.
A gran voce, negli anni, tanti fan e musicisti hanno chiesto una trascrizione ufficiale dei brani suonati in quel concerto, anche se Jarrett cercava di spiegare che era impossibile, perché era tutto frutto di improvvisazione, con momenti intrascrivibili, poiché sforavano dalla rigidità delle battute di uno spartito musicale. Eppure, alla fine ha dovuto cedere alle tante richieste e pressioni e quella trascrizione – che all’epoca costituì quasi un unicum, un’improvvisazione messa nera su bianco per essere rieseguita, una contraddizione in termini – oggi esiste in commercio e viene riprodotta pedissequamente da diversi pianisti in tutto il mondo (anche prossimamente, il 15 febbraio a Roma, ci sarà un recital incentrato sul Köln Concert di Jarrett della brava pianista Gilda Buttà alla IUC, Istituzione Universitaria dei Concerti).

Lui, Jarrett, nei concerti di piano solista ha evoluto nel tempo la sua creatività musicale, dovendo fare i conti anche con il suo fisico: dalle “tirate” di oltre quaranta minuti ininterrotti seguendo “senza rete” la propria vena ispirativa, che costituivano la sua cifra stilistica, ha progressivamente cambiato “format”, passando – complice una fase vissuta alla fine degli anni ’90 in cui fu colpito da una grave forma di Sindrome da Fatica Cronica, che lo bloccò per quasi tre anni – a concerti frammentati in brani più brevi, in cui alternava le consuete improvvisazioni al rifugio sicuro degli standard jazz o a ostinati rhythm’n blues su cui far volteggiare le sue evoluzioni con la mano destra. Perché creare musica dal nulla e per oltre un’ora ha un impatto estenuante sia sul fisico che sulla tenuta psicologica. L’equilibrio che si crea nella sala da concerto, poi, è fragile e infatti viene spesso infranto, anche solo da un colpo di tosse o da qualche rumore inatteso. E sono celebri le sfuriate di Jarrett avvenute contro le platee di mezzo mondo, compresa quella di Umbria Jazz qualche anno fa, quando il pubblico si distraeva scattando foto o non faceva mostra di essere complice con lui nella ricerca di quei piccoli miracoli musicali così unici e irripetibili per quanto eterei e sfuggenti.

E proprio il fisico, alla fine, negli ultimi anni lo ha tradito. “Il pianista Keith Jarrett non esiste più”, ha avuto modo di dire dopo l’ultimo dei due ictus che lo hanno colpito nel 2018 e gli ha reso inutilizzabile la mano sinistra.
Ma il mito dei suoi concerti e delle sue improvvisazioni continua attraverso i suoi dischi, registrazioni di altri concerti di piano solo improvvisati negli anni, o della immensa produzione in trio con i suoi compagni di palco storici, il bassista Gary Peacock e il batterista Jack DeJohnette, con cui ha condiviso decenni di carriera dando interpretazioni personalissime e originali di standard jazz, o di riproposizioni di brani di musica classica o barocca.
E dunque oggi si festeggia una pietra miliare. Un momento di passaggio dal jazz delle cantine e dei locali coi tavoli attaccati al palco, al jazz fenomeno di massa. Dal jazz degli standard con regole codificate al jazz come libera improvvisazione, con le sue regole, certo, ma slegata dal puro concetto di “variazione su un tema iniziale”. Un concetto pericoloso, che può portare facilmente all’anarchia musicale, e per maneggiare il quale, dunque, ci vogliono il talento, la mano dalle dita affusolate, l’estro creativo di un genio. E, perché no, forse anche un pianoforte “scordato” e malandato al punto giusto che ti costringa a tirare fuori una meraviglia, malgrado tutto e tutti.
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