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ToggleNon dite a nonna che Damiano metteva il tacco dodici...
L’americano tranquillo nel romanzo di Graham Greene era un combattente americano in Indocina il cui l’unico interesse passava dal fucile mitragliatore alle attenzioni di una donna dai meravigliosi occhi a mandorla e la pelle color oliva. Una moglie che non divorzia nonostante l’amore sia lontano in tutti i sensi possibili e i tanti sogni del protagonista, erano per l’autore il paradigma di un idealismo di facciata. Il “Sanremo tranquillo” di Carlo Conti è il testimone involontario, un narratore disinteressato e devoto di una realtà edulcorata e rassicurante. La sua rassegna è dritta, snella, senza scossoni, monologhi, satira politica; il suo Sanremo è un bambino iperattivo stordito con il telefono cellulare in mano. Gli artisti, anche quelli più “alternativi” sono chiamati a cantare un’Italia “normale”, con un occhio al passato e una strizzatina al futuro, purché sia entro binari monocromatici. La “normalità” che ne esce fuori è però un concetto non sempre negoziabile, è un’idea che qui patteggia la sua esclusione con vezzi centellinati, con lo strascico di Malgioglio o il pallore clownesco di Lucio Corsi; con un Achille Lauro in smoking che canta un brano alla Notte prima degli esami e un Tony Effe travestito da bravo ragazzo, almeno fino alla terza serata, dove Tony Effe si riveste da Tony Effe.

Ma cosa succederebbe se smettessimo di rincorrere i cuoricini dei Coma Cose? Se qualcuno dovesse offendersi fate come il sindaco Gualtieri, non chiamate Tony Effe a comporre la scaletta di uno spettacolo che guardano insieme nonni e nipoti. Invece di rincorrere schemi riappacificanti potremmo tentare di abbracciare la pluralità delle identità, delle esperienze e delle visioni del mondo, magari per capire meglio cosa ci sia al di là del muro. Forse il problema non è tanto la normalità in sé e il suo tentativo di rappresentazione, quanto l’idea che essa possa essere un valore assoluto e imprescindibile, immutabile. È tutta lì la bestemmia, il pensare che la realtà sia una e una sola. Ha senso invitare al Festival della canzone italiana un Tony Effe versione prima comunione pulito non solo dei suoi tatuaggi, ma anche dei suoi testi sesso, droga e rivoltelle? «Ai 17 raccoglievo i bossoli – cantava fino a ieri – mangiavo e campavo coi soldi dei tossici. Fai le storie con le armi da soft air, meriti botte. Ti suono come suonano il pianoforte, senza che tiro fuori la 9 dai boxer» Ora il trentatreenne romano nel Sanremo di Carlo Conti ha nel cuore «solo ‘na donna e ‘na canzone». “La Glock che spara” l’ha lasciata a casa…
Parliamo di malattia, in tutte le sue forme
Non basta nemmeno il teatro patologico di Dario D’Ambrosi a sviscerare l’anormalità, pur nel suo lodevolissimo esperimento artistico. E nemmeno la patologia tossicologica di Fedez dagli occhi alieni e i mille gossip che mettono in imbarazzo la direzione: dai tradimenti alle amicizie scomode con il mondo ultras criminale. Con il suo brano, Battito, ha parlato con coraggio di depressione in particolare e malattia mentale in generale. Come detto dalla psicoterapeuta Tiziana Corteccioni, le parole di Fedez mettono in luce la solitudine e la sofferenza di chi affronta disturbi mentali. «Ha evidenziato l’importanza di parlare apertamente di questi temi per promuovere una maggiore comprensione e supporto nella società». Il suo brano è una sorta di lettera d’amore indirizzata a una figura femminile che, in realtà, rappresenta la personificazione della depressione stessa. Con questa metafora, Fedez esplora le sfumature di una relazione complessa e dolorosa con la malattia mentale.

E poi c’è un’altra che la malattia la incarna a pieno, come Bianca Balti, che non teme di mostrarsi con le ferite della sua battaglia personale. In un mondo che spesso evita l’argomento, che teme la fragilità e la sofferenza, l’arte diventa un ponte tra il vissuto intimo e la comprensione collettiva. La malattia, con il suo carico di dolore fisico ed emotivo, può isolare chi la vive, ma attraverso la narrazione artistica, diventa un’esperienza condivisibile, riconoscibile, umana. L’arte ha il potere unico di esprimere l’inesprimibile e chi continua a dire che chi canta deve cantare e basta non ha capito nulla dell’arte e della vita in genere. Raccontare la malattia attraverso l’arte non significa solo documentarla, ma interpretarla, darle un senso, trasformarla in qualcosa che può essere sentito e compreso anche da chi non l’ha mai vissuta. Laddove l’arte riesce a dire ciò che le parole non possono, diventa quantomai necessaria.

Attraverso il racconto artistico, la malattia non è più solo una condizione medica, ma un’esperienza umana che coinvolge emozioni, relazioni, identità. Pensiamo ai dipinti di Frida Kahlo, che hanno reso visibile il dolore fisico e psicologico con una potenza emotiva disarmante, o alla scrittura di Audre Lorde, che ha trasformato la sua esperienza con il cancro in un grido di resistenza e rinascita. Queste opere non sono solo testimonianze, ma atti di resilienza che continuano a ispirare chi le incontra. Quando si comprende la sofferenza dell’altro, si diventa più umani, più capaci di cura. Si riescono a costruire ponti emotivi tra chi vive la malattia e chi la osserva dall’esterno, abbattendo le barriere dell’incomprensione e del pregiudizio. In un mondo in cui il dolore viene spesso nascosto, minimizzato o spettacolarizzato, raccontare la malattia è il coraggio di dire: «Esisto anche così, anche nel dolore, anche nella fragilità». E proprio in questo atto di verità risiede la sua straordinaria potenza trasformativa.

Alla dirompenza della malattia c’è la normalità ossimorica di Lucio Corsi, grande scoperta di Carlo Verdone che con Volevo essere un duro rappresenta una riflessione sulla pressione sociale che spinge gli individui a nascondere le proprie fragilità per aderire a ideali di forza e invulnerabilità. Con la sua narrazione personale, Corsi invita l’ascoltatore ad accettare le proprie debolezze, sottolineando l’importanza dell’autenticità. In un’epoca in cui l’immagine e la percezione esterna spesso prevalgono sulla sostanza, il suo messaggio è davvero necessario. La sua canzone ci ricorda che la vera forza risiede nella capacità di abbracciare la propria vulnerabilità e di essere sinceri con se stessi e con gli altri.

E poi c’è Simone Cristicchi e il suo tributo alla malattia terminale, alla contemplazione di una mamma morente nel rovesciamento delle parti di un figlio che diventa accudente verso il genitore fragile. Toccante, mansueta, struggente, la canzone di Cristicchi fa piangere. Damiano David rende il suo tributo a Lucio Dalla con la scenografia asciutta di un padre e un figlio su una panchina. L’amore figliale è protagonista assoluto, così come la famiglia tipo, quella tradizionale, la sola possibile secondo Simone Pillon. Fa niente se Damiano David è diventato famoso cantando con i tacchi a spillo e fa niente se quell’attore sulla panchina si chiama Alessandro Borghi e tra le mille cose ha anche interpretato il re dei pornoattori. Qui non c’è posto per questo, bisogna rassicurare, il comico satirico Luca Ravenna c’è ma fa solo il cameo per l’amico Willie Peyote. E guai per Elodie in conferenza stampa a dire che non voterebbe mai Giorgia Meloni, la gogna social è dietro l’angolo così come le prime pagine dei quotidiani di area conservatrice. A Sanremo non si fa politica, guai. Niente monologhi quest’anno, niente satira, non parlate di migranti e non prendete in giro nessuno. Tirate dritti con le canzoni che parlano di mamma e papà.

Chissà cosa ne pensa nonna della diversità. Come faccio a dirle che Victoria dei Maneskin sta con una donna? Non lo capirebbe e allora non glielo dico. Meglio rappresentare solo un modello di famiglia, escludere determinate comunità e censurare forme di espressione personale impoverendo il racconto collettivo. Il Festival di Sanremo, in quanto evento culturale di rilevanza nazionale, ha la responsabilità di offrire una panoramica il più possibile inclusiva e rappresentativa della realtà italiana, ma quest’anno sarebbe stato come far cantare Fedez senza autotune. Stonerebbe. Cosa invito a fare Papa Francesco se non posso parlare di inclusività? Cosa invito a fare Noah e Mira Awad a cantare Imagine se non posso far sommessamente notare che a Gaza il governo Netanyahu ha ammazzato 80 mila persone e in Ucraina in tre anni di conflitto probabilmente ne sono morte un milione? Includere artisti di diverse provenienze, con storie e background differenti, arricchisce l’offerta culturale e contribuisce anche a promuovere una maggiore comprensione e accettazione reciproca. Vero. Ma non basta se a Tony Effe faccio coprire i tatuaggi. La musica, in particolare, ha il potere di unire le persone, di superare barriere e pregiudizi. Limitare questa potenzialità significa perdere un’importante occasione di crescita collettiva. Ci vuole coraggio caro Carlo Conti, non me ne faccio nulla della tua cartolina da un mondo che non esiste.
E allora torniamo al nostro Lucio Dalla che dietro le sue poesie nascondeva il suo mondo per molti incomprensibile.
…Ma se questo mondo
È un mondo di cartone
Allora per essere felici
Basta un niente, magari una canzone.
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