
La recensione della tappa romana dell'ultimo tour per piano solo del leggendario ex tastierista degli Yes, che ha collaborato anche con Bowie ed Elton John.
Cos’è, il suono, una volta asciugato dal rumore del mondo e riportato alla sua materia più pura, cristallina, all’essenza di ciò che era quando è stato concepito e generato? Una buona approssimazione l’ha avuta chi ha assistito al concerto di Rick Wakeman nella Sala Sinopoli dell’Auditorium-Parco della Musica “Ennio Morricone” di Roma, dove il settantacinquenne musicista nato a Perivale, alle porte di Londra, icona del progressive rock degli anni ’70, quello mitico delle collaborazioni con lo storico gruppo degli Yes di Jon Anderson, si è esibito in un concerto per solo piano.
Pianoforte solo: il “luogo” dove tutto è nato, lo racconta lui stesso all’inizio del concerto: molti dei brani da lui scritti hanno preso vita in prima battuta al piano. E, al di là della sua carriera da tastierista, che lo ha reso celebre ai fan di tutto il mondo, la sua produzione da compositore più ricca è per pianoforte. E dunque al pianoforte ritorna, Wakeman, per l’ultima volta. La tappa romana è infatti una delle tappe in tutto il mondo del suo annunciato Last solo tour, l’ultimo tour in carriera per piano solo, che lo porterà in primavera in Belgio e Olanda e poi in Scandinavia, prima di chiudere, nel prossimo autunno, nella sua amata Gran Bretagna. Alla soglia dei 76 anni, Wakeman dà l’addio alle esibizioni in pubblico del suo strumento preferito.

E il pianoforte di Wakeman è pura gioia. Tra tributi ai grandi nomi con cui ha collaborato e pezzi scritti appositamente per lo strumento solista ripresi da alcuni dei suoi album, quello che colpisce del modo di suonare del musicista britannico è come egli riesca a regalare ai brani interpretati, che partono sempre da una concezione rock, una venatura quasi “new age”, ma con approccio completamente diverso da qualsiasi altro pianista: l’effetto estatico, infatti qui deriva da un vero e proprio profluvio di note, che è completamente l’opposto del minimalismo che spesso caratterizza quello stile espressivo.
Wakeman appare sul palco come un gigante: con il suo metro e 89 di altezza sembra quasi fuori scala rispetto al pianoforte a coda che lo accoglie. Siamo abituati a vederlo troneggiare in mezzo a sette od otto tastiere e altri aggeggi elettronici. Il pianoforte è in realtà la sua “vera casa” e si vede subito. È lì che nascono i brani che poi finiscono in mille rivoli di note sui vari synthetizers. La maestria e la tecnica incontrano la leggerezza e la precisione del tocco, con cascate di note che si susseguono, per riempire il vuoto lasciato dall’assenza degli ensemble con cui siamo abituati a sentire quelle interpretazioni, o per inondare di luce sonora i brani creati e pensati apposta per il piano.

E così, dopo un primo assaggio con una sua composizione, ripresa da uno dei suoi tanti album per piano solo, arriva subito la sezione del concerto dedicata alle grandi collaborazioni. A un’eterea interpretazione di Morning Has Broken di Cat Stevens, succede il David Bowie di Life on Mars e Space Oddity (solo alcuni dei grandi nomi, da Elton John a Paul Simon, che hanno collaborato con uno dei tastieristi più geniali e originali della sua generazione).
Il Duca Bianco volle proprio lui alle tastiere nell’omonimo singolo del ’69 e la collaborazione proseguì qualche anno dopo per l’album Hunky Dory, di cui Life on Mars è la quarta traccia. Il Bowie “lunare” (anzi… marziano) di quei brani diventa nelle mani di Wakeman un Duca di pura luce. Non solare in senso stretto, ma luminoso di luce propria. Il gesto è essenziale, il tocco preciso, la lunga criniera una volta biondastra ora con qualche accenno di bianco ondeggia e sembra quasi danzare al ritmo degli stessi arpeggi che le dita nodose ma leggere solcano sulla tastiera.
Ma, ovviamente, tutti coloro che hanno pagato il biglietto si aspettano il momento in cui riecheggeranno nella sala i successi della band che lo ha visto protagonista per tanti anni, gli Yes, da cui è riuscito e rientrato – lo ricorda lui stesso – più e più volte: lo univano a Jon Anderson&Co. una grande visione mistica del mondo sonoro e il “terreno” interiore su cui hanno creato suite musicali complesse e capolavori come la monumentale (anche come durata) Awaken, ma anche sonorità meno eteree e più “hard”. E le attese non vengono deluse. Spicca una versione veramente sublime e densa di note di Wonderous Stories, dall’album Going for the One del ’77.

Per Wakeman è poi il momento di presentare altri brani da lui composti per solo piano – che affondano le radici nella tradizione medievale e fantasy britannica, con titoli come Arthur, Guinevere o Merlin The Magician che dicono molto dell’atmosfera a cui rimandano. La struttura musicale è ovviamente quella “quadrata” della musica leggera, mediata dalla scelta di presentarle in forma di “suite”. In qualche modo, però, facendosi trasportare dal pianismo di Wakeman, ci si riappropria del senso del perché si sia arrivati, da Bach, o dal jazz, alla forma canzone moderna di stampo british che ha dominato tutti gli ultimi 60 anni di musica. Si sentono le influenze popolari, che gli stessi brani, quando sono suonati magari a pieno organico in gruppo, un po’ perdono, sovrastati da drum, riff di chitarre, cori. In alcuni momenti, chi ha in testa le versioni “elettriche” o “sinfoniche” di qualcuno dei brani, si ritrova invece improvvisamente catapultato nella festa di un qualche villaggio in piena brughiera inglese: il pianoforte riporta quelle composizioni alla loro essenza “pop”, nel senso etimologico della parola.
Wakeman accoglie con gratitudine gli applausi del pubblico romano, sempre più calorosi, prima di chiudere il concerto con un tributo alla musica dei Beatles. È l’unico “blocco” del concerto di puro tributo, con musiche in cui lui non ha messo mano, ma che evidentemente sono il substrato musicale in cui è cresciuto e che lo ha formato: Help!, composta da John Lennon, e infine una ritmata Eleanor Rigby, frutto dell’estro creativo di McCartney chiudono la serata, con gli applausi a scena aperta degli spettatori, che Wakeman raccoglie ancora una volta calorosamente, concedendo ben tre bis.
Poi, facendo segno che quello era davvero l’ultimo, scende dalla scaletta del palco e riceve la pacca sulla spalla della moglie Rachel in modalità “Good job!” e del suo staff e il pianismo insieme gotico e solare del talento delle tastiere lascia il posto alle luci, che infrangono il sogno.
Goodbye, Rick. And thank you.
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