
Un contrattempo dopo l'altro, le lacrime sul palco... Francesca Michielin porta una stilla di umanità in un Festival altrimenti fin troppo rodato e stereotipato.
Nel meccanismo perfetto e rodato imbastito con esperienza e mestiere da Carlo Conti per questa 75a edizione del Festival, c’è una scheggia impazzita che rimbalza per tutta Sanremo fuori tempo, instillando sprazzi di normalità e anche, un po’, di goffaggine in un un carrozzone altrimenti amorfo e con poche emozioni. Parliamo di Francesca Michielin, che sembra voler indurre le Giurie del Festival a istituire il Premio Paperino solo per lei. Già prima di cominciare, durante le prove, era caduta da una delle scalinate meno ripide e scenografiche delle ultime edizioni. Un bis, come tutti i grandi artisti: anche nel 2016 era successa la stessa cosa, ma in quel caso non si era fatta nulla. Questa volta, invece, la caduta l’ha costretta, in questi primi giorni di Festival, a girare per tutta la kermesse in stampelle, con caviglia steccata e vistosa fasciatura a corredo. “Nessun grado di separazione tra me e le scale”, ha simpaticamente commentato sui social. Ma non è finita qui. Perché a tarda notte, durante la prima serata, mentre tutti gli addetti ai lavori dell’Ariston pensavano di averla sfangata senza intoppi e i telespettatori a casa già avevano iniziato le procedure di sonnecchio, un urlo accorato si è levato alto nel teatro sanremese. No, non era il “Si ‘na preta” lanciato da un improvvido imprenditore salernitano in trasferta alla statuaria Rose Villain di cui tutti hanno parlato. Quello era successo prima.

Era lei, invece, Francesca, entrata come ventottesima concorrente su ventinove e ormai pronta a esibirsi, con il pezzo Fango in paradiso già lanciato, gli autori già nominati, la schermata già andata in onda, persino la base partita da spiccioli di secondi e gli orchestrali già con l’archetto e le bacchette in mano, quando si è resa conto che qualcosa non andava.
«Aspettate, aspettate, scusate…», ha urlato. Panico in sala… Che succede? Carlo Conti già era pronto a correre sul palco. Il pubblico si è svegliato tutto insieme per la sorpresa. Il problema era semplicemente che nella concitata preparazione, con l’ingresso in palcoscenico dalle quinte invece che della scalinata e tutto quanto, Francy si era scordata di indossare gli auricolari. Non un particolare di poco conto, come ogni musicista che ha calcato un palcoscenico sa bene. È grazie a quegli affaretti, infatti, che i cantanti possono eliminare i rumori di fondo e ricevere nell’orecchio in tempo reale e senza rimbombi strani, né delay il suono mixato e calibrato a dovere dell’accompagnamento strumentale ai loro pezzi. Un dettaglio che può rovinare l’intera performance. Lo sa bene Sergio Sylvestre che nell’edizione 2017, per un malfunzionamento dei cosiddetti in-ear, si disse almeno allora, in una delle esibizioni andò completamente fuori tempo per questo motivo (ma anche altri accusarono problemi simili), decidendo però stoicamente di proseguire, andando incontro al massacro. D’altronde, “the Show must go on”… Michielin invece ha avuto la reazione istintiva di fermare tutto e ricominciare. Quella che avremmo avuto noi.

“The show must stop now“! Altro che “go on”… Non scherziamo! Ci vuole o il coraggio di chi può permetterselo o l’incoscienza di non rendersi conto di cosa sta facendo, per bloccare, sia pur per un miliardesimo di secondo, tutto il pubblico del teatro, il direttore artistico che ti ha voluta, tutta l’Italia che ti sta guardando perché ti eri dimenticata un aggeggio di un centimetro e mezzo nelle orecchie. L’impressione è che nel caso di Francesca sia valsa “la seconda che abbiamo detto”, per dirla alla Guzzanti. Tant’è che poi l’artista è sembrata avere qualche contraccolpo, durante l’esibizione, dalla sua mancanza, anche se per un professionista cose del genere in fondo sono pane quotidiano, troppe ne succedono esibendosi dal vivo. Ma Sanremo è Sanremo. E lì fa effetto.
Comunque, pezzo terminato, tutti contenti, e Festival conclusosi persino in anticipo con gioia di Carlo Conti e dei pigiami di tutta Italia. Tutto finito? Tutto alle spalle? Macché. A Sanremo, dopo il Festival, c’è il (indovinate un po’?) Dopofestival. Dove tutti gli artisti e gli addetti ai lavori corrono dopo la serata a dire la loro, intervistati quest’anno dal pacioso Alessandro Cattelan. Corrono? È una parola, con la caviglia steccata… Pacioso? Ma neanche un po’… Insomma, per farla breve, Francesca Michielin arriva tardi all’intervista e il buon Cattelan la liquida in poche battute dovendo chiudere il collegamento e rimproverandola pure per averci messo venti minuti per fare duecento metri che separano la postazione dall’Ariston. “Why Always me?”, è sembrata pensare la cantante, che non si aspettava tanto calore umano.

Stacco. Seconda serata. Francesca è tra i quindici Big chiamati a riesibirsi per primi e non attendere giovedì. E lei questa volta, fasciata in un top blu con look approvato dalla nonna, decide di dare tutto e mettere tutta se stessa, per rifarsi dell’intoppo della sera prima e rendere questa interpretazione memorabile. Testo che parla di lacrime, di tradimenti, di scivolate sul pavimento bagnato (ma allora te le cerchi!…), di amore sprecato. Ci mette tutta se stessa, Francesca, e si vede, come ha messo tutta se stessa nella scrittura della canzone. In qualche modo c’è un pezzo di lei in quel testo. «È la canzone più viscerale che abbia mai scritto», ha dichiarato. E infatti, questa volta, la performance è non solo impeccabile, ma intensa, sentita, appassionata, lontana dai tremolii e dalla voce forzata della prima sera. Bene, direte voi, finalmente! E invece no…
Primo, perché al momento dell’ingresso in scena le si è sganciato il reggiseno sotto il top, come ha raccontato a Ema Stokholma e Gino Castaldo a Rai Radio 2 subito dopo la sua performance. Non se n’è accorto nessuno, perché dello stesso colore dell’abito e perché questa volta ha fatto buon viso a cattivo gioco e proseguito con nonchalance la sua esibizione.
Secondo, perché così è stato troppo. Troppo per lei. Troppo per il momento. Troppo per le cose vissute nei giorni precedenti. Troppo per le cose vissute, e provate, chissà quando. Troppe emozioni. E lei, al termine del brano scoppia in lacrime. Irrefrenabili. Quelle della canzone che fanno cadere le grondaie. Arriva Carlo coi fiori. E lì, persino lui, il direttore artistico rodato ed esperto, appare imbambolato e non sa che fare. Francesca gli si avvicina e lo abbraccia, forte (per i punti Fantasanremo, ovviamente, non ci sarete mica cascati?). Poi prende i fiori e corre (sì, corre, con tutta la caviglia che le fa male) via, salutando tutti e augurando la prima cosa che quando sei a Sanremo a febbraio l’educazione ti dice di dire, se in quel momento hai il cervello in bambola e ti senti inadeguato: “Buon Festival”, come una che ha appena fatto di tutto per essere lì, dov’era, al meglio e al tempo stesso vorrebbe essere a centomila miglia, da lì.

Ecco, in quell’attimo… per un attimo (scusate il gioco di parole), una stilla di umanità è calata sul carrozzone ormai semiautomatizzato del Festival, ricordandoci che dietro le major, i miliardi, i dischi, la kermesse, scartando via le corazze del look, dello stile, dello status, dell’ego pompato a mille, delle corti dei miracoli che girano intorno, ci sono solo tanti adolescenti un po’ cresciuti che fanno le cose che amano fare, e magari sognavano di fare in cameretta con una matita in mano a mo’ di microfono e il poster della band preferita davanti. In quel momento, tutti noi, che reagiamo d’istinto alle avversità, che se ci cadono le lacrime non abbiamo la professionalità per trattenerle solo perché “the Show” dovrebbe “go on”, che arriviamo sempre un passo troppo tardi e che, se lo affrettiamo, cadiamo dalle scale, che di fronte a un imprevisto sembriamo pulcini smarriti e bagnati e non abbiamo la fortuna e l’aplomb di Gastone Paperone che cavalca sempre l’onda del destino, tutti noi che perdiamo il controllo senza fare male a nessuno se non a noi stessi, siamo stati su quel palco.
Poi è arrivato Damiano, per ricordare che di cognome fa “David” e non “Dei Maneskin”, e Nino Frassica per fargli firmare l’autografo su un “virile” dei Pooh, e tutto è ricominciato come sempre.
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