
Sara Sotira: «Destabilizzante per i familiari la riapertura del caso Chiara Poggi»
Il caso Chiara Poggi torna sotto i riflettori, tra nuove scoperte scientifiche e vecchie ferite che si riaprono. Un’analisi delle implicazioni psicologiche per tutti i protagonisti.
Da settimane non si parla d’altro. Chiara Poggi è un caso (quasi) riaperto, dopo le clamorose rivelazioni sul Dna di Andrea Sempio ritrovato sotto le unghie della giovane grazie alle nuove, sofisticate apparecchiature in possesso alla scientifica. Sempio, amico del fratello di Chiara, in origine era stato indagato per il delitto, ma poi prosciolto quando le accuse vennero rivolte definitivamente all’allora fidanzata della Poggi, Alberto Stasi. Il quale è tutt’ora in carcere in un regime di semi libertà che gli consente di uscire dalla sua cella dal mattino alla sera per recarsi al lavoro. Sarebbe un clamoroso ribaltamento della sentenza, che per i primi due gradi di giudizio aveva riconosciuto in Stasi l’innocenza, trasformata in condanna in Cassazione. Ora la verità potrebbe prendere un’altra strada, e incamminarsi verso orizzonti diversi. Ma questa novità che ha sconvolto l’Italia intera, che effetto può avere sulla famiglia, su Alberto Stasi e su tutti i protagonisti di questa drammatica vicenda? Ne parliamo con Sara Sotira, psicologa e psicosseuologa esperta di psicoterapia cognitivo comportamentale.
Dottoressa, cosa significa per la famiglia Poggi dover affrontare di nuovo l’incubo della morte di Chiara, con la riapertura del caso?
Riaprire il caso di Chiara Poggi significa, per la sua famiglia, tornare a vivere un dolore mai davvero sopito. Come se il tempo si fermasse di nuovo a quel giorno terribile, riattivando emozioni profonde: la perdita, lo shock, la rabbia, l’impotenza. Come psicologa, so bene quanto i traumi legati a eventi così drammatici non si cancellino, ma mettono radici nel corpo e nella memoria. Oggi quella ferita torna a sanguinare e con essa si riaprono molte domande. È molto importante non lasciare sole le persone colpite, offrire ascolto e supporto.
E per chi è stato già processato, come può cambiare l’equilibrio psicologico il tornare improvvisamente sotto i riflettori della giustizia e dei media?
Per chi è già stato processato, il ritorno improvviso sotto i riflettori della giustizia e dei media può essere psicologicamente destabilizzante. È come se il passato tornasse a reclamare spazio, mettendo in discussione un equilibrio faticosamente ricostruito. Le emozioni possono essere intense e contrastanti, come rabbia, paura di essere nuovamente esposti al giudizio pubblico, ma anche un riemergere di vissuti interiori mai del tutto elaborati. Spesso, la persona ha cercato di andare avanti, ricostruendo una propria quotidianità, una nuova normalità: oggi quella normalità vacilla.

Quanto pesa, dal punto di vista psicologico, l’attenzione costante dei media su casi di cronaca così delicati?
L’attenzione costante dei media su casi di cronaca così delicati può avere un impatto psicologico profondo, sia sulle persone direttamente coinvolte che sull’opinione pubblica. Per le famiglie delle vittime, la continua esposizione mediatica può riattivare il trauma, rendendo difficile il processo di elaborazione del lutto. Essere costantemente sotto i riflettori significa spesso sentirsi esposti, vulnerabili e non rispettati nel proprio dolore. Infine, per il pubblico, l’esposizione ripetuta a notizie traumatiche può generare ansia, stress e una sorta di “affaticamento emotivo”, con il rischio di sviluppare apatia e visione distorte della realtà. Credo sia fondamentale che i media trattino questi temi con molta responsabilità.
Dopo così tanti anni, è possibile che i ricordi o le testimonianze si modifichino? E come funziona questo processo nella mente umana?
Si, con il passare degli anni i ricordi e le testimonianze possono modificarsi. La memoria non è fotografica, ma ricostruttiva: ogni volta che ricordiamo, rielaboriamo. Emozioni, eventi successivi o influenze esterne possono alterare involontariamente il ricordo originario. È un processo naturale del cervello, non una falsificazione volontaria. Per questo, è importante trattare con cautela e rispetto le testimonianze, soprattutto a distanza di molti anni.
C’è il rischio che, con la riapertura del caso, le persone coinvolte vengano nuovamente ferite, anche solo a livello emotivo?
Si, riaprire un caso di cronaca significa anche riaprire ferite emotive. Chi è coinvolto può rivivere ansia, dolore, senso di esposizione. Anche dopo anni, il trauma può riaffiorare con forza. Dietro ogni notizia ci sono persone con emozioni, fragilità e storie complesse. Ricordiamolo, sempre.

In che modo si può aiutare una comunità a rielaborare un trauma collettivo che ritorna improvvisamente alla ribalta?
Per aiutare una comunità a rielaborare un trauma collettivo che riaffiora è fondamentale creare spazi sicuri di ascolto e riconoscimento del dolore. Servono interventi di supporto psicologico, comunicazione responsabile da parte dei media e momenti di coesione che favoriscano l’elaborazione emotiva condivisa. Il trauma va nominato, ascoltato e accolto, non rimosso. Solo così una comunità può trasformare il dolore in consapevolezza e resilienza.
Cosa comporta, psicologicamente, vivere per anni senza una verità definitiva o una giustizia chiara?
Vivere nell’incertezza, senza una verità o una giustizia chiara, genera una sensazione di impotenza e frustrazione profonda. La mente umana ha bisogno di risposte per dare senso al dolore e al trauma. Quando queste risposte mancano, si sperimenta un continuo senso di “sospensione”, che può sfociare in ansia, rabbia, depressione e un senso di ingiustizia che mina la serenità. L’attesa senza fine è una condizione che rende difficile elaborare il lutto o il trauma, poiché la mente non riesce a chiudere il ciclo emotivo.
Perché, secondo lei, l’opinione pubblica continua a seguire con tanta partecipazione casi come quelli di Chiara Poggi? Cosa ci dice questo su di noi come società?
L’opinione pubblica continua a seguire con grande partecipazione casi come quello di Chiara Poggi perché questi eventi toccano corde profonde della nostra umanità: il dolore, l’ingiustizia e la ricerca di verità. In una società sempre più sensibile alle emozioni e alle storie personali, questi casi diventano simboli di battaglie collettive, un modo per confrontarsi con temi universali come la perdita, la giustizia e la sicurezza. Questo interesse ci parla di un desiderio di giustizia, di verità e di riparazione. Rivelano anche un aspetto della nostra società che è fortemente influenzato dai media e dalla continua esposizione a storie che diventano quasi un rito collettivo.
Alberto Stasi, che per ora per la giustizia resta l’unico colpevole di questo efferato omicidio come potrà psicologicamente riprendersi per tornare a vivere nella società moderna?
Per Alberto Stasi, il percorso psicologico per “riprendersi” e reintegrarsi nella società è estremamente complesso. Il confronto con il suo passato, il peso della stigmatizzazione sociale e l’attenzione mediatica possono rendere difficile la costruzione di una nuova identità. Un supporto terapeutico adeguato e una rete di sostegno sono fondamentali, ma il cammino verso la reintegrazione è lungo, doloroso e dipende molto dalla società stessa. La stigmatizzazione rende arduo ricostruire fiducia e relazioni, ma con il giusto aiuto, il cambiamento è possibile.
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