
Doppio ergastolo per Filippo Turetta e
Alessandro Impagnatiello.
Fenomenologia di due assassini
Filippo Turetta e Alessandro Impagnatiello, entrambi rei confessi, hanno ucciso le donne che dicevano di amare accoltellandole brutalmente e cercando poi di sbarazzarsi del loro ingombrante cadavere. Due giovani donne accomunate, oltre che da un tragico destino anche dal nome, Giulia.
Giulia Cecchettin
Giulia Cecchettin è una ragazza di 22 anni, che studia ingegneria biomedica all’Università di Padova dove ha conosciuto il coetaneo Filippo Turetta con il quale è stata fidanzata per un anno ma poi, a fine agosto del 2023, lo ha lasciato. I motivi sono tutti elencati in un memorandum che Giulia aveva scritto a se stessa, probabilmente per dare più forza alla decisione che aveva preso e messo in atto. Dalle parole che Giulia aveva annotato emerge con chiarezza che Turetta esercitava su di lei un controllo ossessivo sulle amicizie, le uscite, le frequentazioni, negandole i suoi spazi personali, minacciandola e insultandola pesantemente durante le liti, pretendendo che lei lo aiutasse a studiare, che lo mettesse al corrente di ogni parola che lo riguardava detta alle amiche o allo psicologo e, non ultimo, diventando molto insistente quando voleva fare sesso ma lei lo respingeva. “L’ho lasciato e spero davvero di rimanere fedele alla mia scelta”, scriveva Giulia nell’estate del 2023. Tre mesi dopo lui ha spezzato la sua vita per sempre.
Anche Filippo prendeva appunti, segnava con minuzia maniacale i comportamenti di Giulia, i messaggi, il posto in cui lei decideva di sedersi all’Università durante le lezioni, i gesti carini che lui faceva nei suoi confronti, decine e decine di annotazioni anche più volte al giorno, in un elenco ossessivo che continuerà ad aggiornare fino alla sera del 3 novembre 2023. In un file, che aveva intitolato “Diario malessere”, ha scritto: “Mi sembra di stare facendo tutto per nulla, senza una ragione e senza voglia. Sto vivendo per inerzia, non ce la faccio più sono troppo stanco di vivere”.
Dopo che Giulia lo aveva lasciato, infatti, Filippo Turetta diceva di sentirsi vuoto. La tormentava, giocava coi suoi sensi di colpa, minacciava anche il suicidio come forma di “ricatto”. Giulia era esasperata e spaventata, ma al tempo stesso preoccupata che l’ex fidanzato potesse compiere gesti autolesionisti e per questo aveva continuato a sentirlo e ogni tanto aveva accettato di vederlo. Come quel fatidico 11 novembre 2023, quando si lascia accompagnare in un centro commerciale per acquistare un paio di scarpe da indossare per la sua laurea ormai prossima (Turetta le aveva persino chiesto di posticipare la discussione, prevista per il 16 novembre, per “aspettarlo” e laurearsi insieme, ma Giulia andava dritta per la sua strada).
Dopo lo shopping e una cena al fast food, Giulia sale in macchina con il suo ex e l’auto si allontana dal centro commerciale. Nessuno la rivedrà mai più viva.

L’aggressione
Il primo dicembre Turetta confessa davanti al PM di Venezia Andrea Petroni l’aggressione in tre tempi: nel parcheggio di Vigonovo, a 150 metri da casa Cecchettin, durante il tragitto in auto e nella zona industriale di Fossò. Lui le chiede di tornare insieme per l’ennesima volta e, al rifiuto di lei, afferra un coltello e colpisce: Giulia urla, cade e lui la carica in macchina. Infierisce ancora quando Giulia è bloccata in auto e nella zona industriale lei prova a scappare. Turetta ha confessato: “Continuava a chiedere aiuto. Si proteggeva con le braccia dove la stavo colpendo. L’ultima coltellata che le ho dato era sull’occhio”. L’ultima coltellata è la settantacinquesima. Lui la carica sui sedili posteriori e inizia la fuga. Una fuga che terminerà qualche giorno dopo con l’arresto in Germania mentre era fermo con la sua auto sulla corsia di emergenza. Viene estradato in Italia il 25 novembre.
Il cadavere di Giulia verrà ritrovato il 18 novembre nei pressi del lago di Barcis, in Friuli-Venezia Giulia, dove la macchina di Turetta era stata vista fermarsi per più di due ore prima di passare il confine con l’Austria.
Giulia Tramontano
Giulia Tramontano ha 29 anni ed è incinta di sette mesi di un maschietto che vuole chiamare Thiago. La sera del 27 maggio 2023 sta tornando a casa sua, a Senago, in provincia di Milano. Ad attenderla in salotto c’è Alessandro Impagnatiello, barman trentenne, il suo compagno, il suo convivente, il padre di suo figlio. L’attende con uno scopo preciso, ucciderla. Giulia ha da poco scoperto che Alessandro ha una relazione parallela con una ragazza di 23 anni italoinglese che lavora con lui e sta tornando a casa proprio dopo aver avuto un confronto con l’altra in centro a Milano. Lo ha avvisato di aspettarla perché devono parlare, ma Alessandro sa già di cosa ed è pronto. Non vuole parlare. Non ha intenzione di essere travolto dalle recriminazioni di Giulia, non vuole affrontare la sua rabbia, la sua delusione, non vuole dare spiegazioni, ammettere o negare, non vuole scenate, non vuole affrontare né “gestire” nulla, non ci pensa nemmeno. Alessandro adesso vuole risolvere il problema. Non c’è più tempo di aspettare che il veleno per topi che sta somministrando a Giulia da ormai almeno cinque mesi faccia finalmente effetto (l’autopsia ha rinvenuto tracce di Bromadiolone nel cadavere di Giulia e del piccolo Thiago). Vuole uscire da quella situazione che gli è sfuggita di mano e che lui stesso, all’indomani della confessione, definirà “stressante”, e vuole farlo nel modo che in quel momento gli sembra il più semplice possibile: facendo sparire Giulia e il loro bambino che sta per nascere dalla faccia della terra. È per questo che l’aspetta con un coltello tra le mani e quando lei entra in casa le si scaglia contro massacrandola con 37 coltellate.

Quel maledetto cadavere
In un lampo è tutto finito. C’è solo un problema. Il cadavere di Giulia non si è smaterializzato, non è scomparso nel nulla nell’istante in cui la vittima ha esalato l’ultimo respiro. No, è lì, in mezzo al salotto, disturbante, e lui in qualche modo deve occuparsene.
Il tentativo di bruciare il corpo di Giulia nella vasca da bagno fallisce miseramente. Così lo trasferisce nel box auto e nella notte prende l’auto e si reca dall’amante, per rassicurarla: “Giulia non è più un problema”, le dice. Un’affermazione che deve essere suonata a dir poco “sinistra” alla ragazza, che dall’incontro con Giulia nel pomeriggio ha ormai capito con chi ha a che fare (anche se probabilmente non ancora fino in fondo) e che, spaventata, lo manda via.
Impagnatiello comincia forse a pensare per la prima volta che le cose non andranno esattamente come aveva pensato. Che aver ucciso la sua compagna potrebbe creargli un problema più grande di quello che intendeva risolvere, e poi c’è ancora quel maledetto cadavere…
Alle 3 di notte le telecamere lo riprendono mentre cammina verso la macchina e, durante l’interrogatorio, confesserà di aver cercato per una seconda volta di bruciare il corpo di Giulia.
La mattina seguente si reca al lavoro e solo alcune ore dopo va in caserma a denunciare la scomparsa della compagna. Poi va a casa e nei giorni seguenti cerca ancora disperatamente di sbarazzarsi del cadavere: lo sposta dal box alla cantina, poi nel bagagliaio della macchina e finalmente decide di abbandonarlo in via Monte Rosa, a Senago, in un anfratto invaso dalle erbacce, come un rifiuto.
Confesserà tutto poco dopo, crollando sotto la pressione degli inquirenti. Grazie alla sua collaborazione le forze dell’ordine rinvengono il cadavere di Giulia e l’arma del delitto, il coltello rimasto in casa.

Il processo, iniziato a gennaio 2024, si è concluso dopo 13 strazianti udienze lo scorso 25 novembre, in cui si celebra, neanche a farlo apposta (o forse sì), la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. E si è concluso con l’attesa condanna all’ergastolo per l’imputato, a cui sono state attribuite anche le aggravanti della premeditazione, della crudeltà e di aver commesso il fatto a danno della convivente. Ad essa si è aggiunta una condanna a sette anni per occultamento di cadavere e interruzione di gravidanza non consensuale (leggi, per l’omicidio del piccolo Thiago, il bambino che Giulia aveva in grembo e che non verrà mai al mondo).
E proprio lo stesso giorno in cui Alessandro Impagnatiello veniva portato via dalla polizia penitenziaria dall’aula della Corte di Assise di Milano dove era appena stata pronunciata la sua sentenza, in un’altra aula di tribunale italiana, il PM Petroni chiedeva il massimo della pena per Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin.
Il 3 dicembre anche Turetta, come Impagnatiello, è stato condannato all’ergastolo. La sentenza della Corte di Assise di Venezia, arrivata al termine di un processo iniziato lo scorso 23 settembre con rito abbreviato, ha riconosciuto la premeditazione, il sequestro di persona e l’occultamento di cadavere, ma ha escluso le aggravanti della crudeltà e dello stalking. Per comprendere i motivi di queste esclusioni bisognerà attendere il deposito della motivazione della sentenza (entro novanta giorni dalla pronuncia della stessa), ma se si può discutere se e in quale misura Giulia si sentisse davvero minacciata dall’ex, dal momento che aveva accettato di andare a fare shopping con lui il giorno in cui poi l’ha uccisa, c’è da chiedersi dopo quante coltellate un delitto possa definirsi crudele se le 75 con cui Turetta ha massacrato il corpo di Giulia non sono state ritenute sufficienti.
Narcisisti maligni
Apparentemente i moventi dei due omicidi sono diversi, anzi, diametralmente opposti: Impagnatiello voleva liberarsi di Giulia Tramontano, perché aspettava un bambino che lo avrebbe inchiodato in una vita familiare di responsabilità da cui il suo ego narcisista si sentiva soffocato; Filippo Turetta, invece, voleva tenere Giulia Cecchettin stretta a sé in un rapporto morboso e se voleva liberarsi di qualcosa, probabilmente era dell’angoscia e della rabbia che provava per non riuscire in questo intento.
Ma si tratta di due facce della stessa medaglia. La personalità narcisistica maligna che accomuna i due assassini segue le stesse dinamiche. La criminologa Roberta Bruzzone ha descritto il narcisista maligno come “un parassita, un soggetto totalmente interessato a nutrire i propri bisogni e i propri obiettivi e che per farlo non ha scrupoli nell’utilizzare chiunque gli capiti a tiro”. È incapace di sostenere la frustrazione, di farsi carico di se stesso, della propria inaudita fragilità, di guardare in faccia il baratro che separa il proprio desiderio di grandezza dalla misera realtà della propria natura. Non accetta di venir ostacolato, non accetta di venire smascherato, come Alessandro Impagnatiello, non accetta di essere allontanato, di perdere l’essere da cui succhia la linfa vitale come la più vorace delle sanguisughe, come Filippo Turetta, per cui Giulia Cecchettin rappresentava il solo appiglio a una vita “normale”, l’ultimo prima di sprofondare per sempre nell’abisso della sua anima malata.

Giustizia è fatta
Ora giustizia è fatta. Ma questa giustizia non basta. Non può bastare. Non può bastare alle famiglie delle vittime. Non può bastare a tutti noi. C’è un senso di perdita, di sgomento, di scoramento che trascende il dramma personale e che annichilisce l’intera società.
Si parla di violenza di genere, di femminicidi, di cultura del patriarcato.
E la cultura del patriarcato è colpevole, sì, è colpevole di avvalorare la visione della donna come oggetto subalterno, colpevole di far passare come naturali conseguenze di un “amore vero” comportamenti che con l’amore non hanno nulla a che fare, come il senso di possesso, il bisogno di controllo o gli episodi di violenza fisica o psicologica. È colpevole di sminuire, giustificare, normalizzare tutte quelle parole e quegli atteggiamenti che invece dovrebbero essere colti (dalle vittime in primis) come immediati campanelli di massimo allarme, riconosciuti e compresi come segnali di pericolo, di sopraffazione, di tossicità, di patologia.
Quindi, alla fine, cosa resta?
L’essenza stessa di queste due tragedie è stata messa in luce dalle parole di Gino Cecchettin, il padre di Giulia all’indomani della sentenza:
“La mia sensazione è che abbiamo perso tutti come società. Non sono né più sollevato né più triste rispetto a ieri o domani. È stata fatta giustizia, la rispetto, ma dovremmo fare di più come esseri umani. La violenza di genere va combattuta con la prevenzione, con concetti forse un po’ troppo lontani. Come essere umano mi sento sconfitto”.
E davanti alla bara di sua figlia Giulia, davanti alla bara di Giulia Tramontano e del suo bambino siamo tutti davvero sconfitti.

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